Visualizzazioni totali

sabato 25 febbraio 2012

Orfeo impugna il bulino e va alla guerra: Czaschka incisore




Jürgen Czaschka — nato a Vienna nel 1943 — è un solitario, ma non perché abbia abbracciato lo stereotipo bohémien dell’artista timido e insicuro. No. Lo è semplicemente perché glielo impone una ferrea, superba, per certi aspetti crudele, «abnegazione» alla sua opera, il desiderio di annullarsi, di scomparire completamente in essa. Autore alquanto prolifico di impeccabili incisioni al bulino, da autodidatta assoluto Czaschka è pervenuto, mediante ascetica disciplina, a esiti che testimoniano di un lucido e pienamente soddisfatto «dominio» del mezzo espressivo. Un dominio che è frutto, altresì, di una spiccata e beninteso innata «vocazione alla forma», che gli ha permesso e gli permette tuttora — in qualsiasi circostanza — di padroneggiare a suo piacimento le innumerevoli potenzialità insite, per l’appunto, nel segno, apparentemente scabro, del bulino.
In Czaschka, il virtuosismo tecnico — che pure ha fatto di lui uno degli incisori attualmente più apprezzati tra i collezionisti e gli amateurs d’estampes di area germanica — non è mai fine a se stesso. Ancorché sufficientemente vasta, la sua produzione non risente, neanche lontanamente, del ghiaccio accademismo tipico, che so, di una certa grafica mitteleuropea contemporanea, dove si cerca, ma invano, di ovviare all’assenza di una Musa facendo leva sui turgidi quanto sterili artifici del «mestiere».


Czaschka, piuttosto, si muove — e i suoi lavori stanno lì a dimostrarlo in maniera lampante — nell’ambito di un sentimento mitopoietico della vita e della realtà, per mezzo del quale, ogni volta, egli riesce miracolosamente a esorcizzare i demoni da lui stesso evocati, che finirebbero, altrimenti, per stritolarlo. La dittatura della tecnologia, la mercificazione dello spirito, la banalità del male: rebus, enigmi, sciarade, che Czaschka affronta — e risolve — in virtù di una particolare sensibilità estetica e di una spissitudo spiritualis tutta sua, che gli derivano entrambe da una, tutt’altro che superficiale, cultura di matrice storico-umanistica, a cui non va disgiunta la costante frequentazione dei massimi esponenti del pensiero, della musica, dell’arte e della letteratura tedesche, da Friedrich Nietzsche a Richard Wagner, da Ernst Jünger a Gottfried Benn. Individualità titaniche ed emblematiche di un certo modo di concepire il mondo, alle quali Czaschka si è ispirato in alcuni dei suoi più straordinari ex libris. 
Un nichilismo tragico e disperato pervade il corpus incisorio czaschkiano, che pullula di divinità millenarie dalla muscolatura erculea, di maschere atroci e beffarde, di larve subumane condannate a struggersi nell’attesa senza fine di un riscatto impossibile. Un universo dove ogni gioia sembra bandita, a meno che non ci si affidi all'Arte.

Raimondo di Pennaforte

martedì 14 febbraio 2012

Guido De Giorgio tra Oriente e Occidente




Pensatore “metafisico” e rigorosamente “inattuale”, sulle orme di Guénon, di cui fu amico e discepolo, propugnò la via di un’ascesi “eroica”, improntata ai canoni olimpici della “romanità”. Autore di opere dove un cattolicesimo “integrale”, dai toni mistici e ispirati, si salda a suggestioni liriche di stampo sufico, imputava all’Occidente di essersi fatto risucchiare nella palude del più crasso materialismo ateo. Alla mentalità profana e “orizzontale” tipica del mondo moderno, contrappose i princìpi “verticali” e “trascendenti” della “Tradizione Perenne”, interpretata alla luce della sua equazione personale.

  
Esiste — nel formicolante e babelico universo della cultura italiana del ‘900 — una «terra di mezzo» dove, sepolti sotto spesse patine di polvere, giacciono nomi su cui aleggia una cappa di silenzio troppo assordante per non dare adito a sospetti. Sbiaditi dagherrotipi che rischiano, alla lunga, di sprofondare irrimediabilmente nella più plateale e amorfa indifferenza. Voci scomode e «ingombranti», che aspettano — invano — di essere estratte dal «limbo» nel quale le si è volute arbitrariamente relegare, in ossequio a un presunto (e pretestuoso) «anacronismo». Idee impervie, libri ardui e spinosi, su cui incombe ancor oggi minacciosa, brandita da chi teme che il dogma del «Pensiero Unico» ne esca intaccato, la scure della damnatio memoriae e della strumentale, nonché sistematica, sottovalutazione.
Tra le vittime più illustri di questa strisciante «amnesia» collettiva, che pare destinata a propagarsi (e a perpetuarsi) al di là delle previsioni meno rosee, vi è Guido De Giorgio, nato a San Lupo (in provincia di Benevento) nel 1890 e scomparso nel 1957 nei pressi di Mondovì (nel cuneese). Una figura, questa, pure tra le più esemplari e significative di quella corrente di pensiero che, più o meno impropriamente, è stata spesso definita ora «tradizionalista», ora «spiritualista»; corrente che trovò, all’interno del fascismo, una sua —  per molti problematica e faticosa — collocazione.

Da una torre d'avorio
Cattolico islamizzante, amico e stretto collaboratore di Julius Evola e di René Guénon, scrittore dalla vena metafisica, alpinista esoterico, Guido De Giorgio è uno di quei personaggi che non si prestano a tiepidi approcci, che non lasciano spazio alle mezze misure, alle cautele ermeneutiche di rito. Uno di quegli autori, come ce ne sono pochi, al cui cospetto ci si sente immediatamente attratti (o respinti), sull’onda di un misterioso e viscerale «impulso» esulante per sua natura dalla sfera delle fredde elucubrazioni intellettualistiche. Autori che ci piace serbare nei più riposti scaffali dell’anima, perché non cadano preda di sguardi profani e profanatori, oggetto di volgari e insolenti appropriazioni indebite. Autori che si contano sulle dita di una mano e con i quali, pagina dopo pagina, riga dopo riga, si finisce inconsapevolmente per instaurare una sorta di aristocratico «colloquio», frutto di una dantesca «corrispondenza d’amorosi sensi», difficile a spiegarsi in termini meramente razionali.  Come difficile, d’altronde, è accostarsi alla personalità ombrosa e «inattuale» — il che rappresenta per noi, beninteso, una nota di merito — di Guido De Giorgio, per meglio lumeggiare la quale occorre rifarsi, in primo luogo, alle due opere principali uscite dalle penna di quest’ultimo, ambedue — per una serie di circostanze che non possono che considerarsi «emblematiche» — pubblicate postume, a molti anni di distanza dalla morte: La Tradizione Romana (1973) e Dio e il Poeta (1985). Testi, quelli di De Giorgio, che, per certi aspetti, si inseriscono e collocano il nostro nell’alveo di un più vasto e generale orientamento speculativo, che va sotto la voce di «letteratura della crisi» e che tanta parte ha avuto nel panorama filosofico e intellettuale del XX secolo, specie nel periodo che si situa tra i due grandi conflitti mondiali. Fu allora che uomini e pensatori dalla diversa estrazione culturale e dalla diversa sensibilità religiosa come Benda e Bernanos, come Spengler e Ortega y Gasset, come i già citati Evola e Guénon, cominciarono a interrogarsi, con esiti il più  delle volte sorprendentemente convergenti, sulla «decadenza» cui il mondo moderno era andato, ai loro occhi, via via condannandosi. Decadenza innanzitutto etica e spirituale.




Ne La Tradizione Romana, De Giorgio traccia una diagnosi — a dir poco impietosa —  delle innumerevoli «degenerazioni» e «aberrazioni» scientiste, che cospirano affinché nel tipo umano occidentale degli ultimi tempi ogni residuo anelito alla trascendenza venga tarpato, soffocato. Tra i «sintomi» più vistosi di questa deriva atea e materialista, cui la nostra civiltà sembra essersi caninamente rassegnata, De Giorgio ravvisa la progressiva dimenticanza della funzione «centripeta» e «unificatrice» di Roma: «L’Europa non ha fissità perché non ha tradizione: perdendo di vista il vero “dinamismo” [...], si è lasciata sommergere da un fremito tetanico di permanente mobilità [...]. In realtà tutto ciò è delirio infantile dovuto a un progressivo abbassamento del livello intellettuale che, come assoggetta lo spirito alla materia, così opprime l’uomo con la macchina».
«Il punto di vista di questo saggio è assoluto, cioè metafisico, sacro, tradizionale: questi tre termini sono per noi identici perché convergono nella determinazione di un medesimo dominio, quello delle verità trascendenti che costituisce lo scopo supremo dell’uomo, che noi consideriamo tradizionalmente di origine divina e di destinazione divina purché egli voglia e sappia conquistare ciò che volontariamente ha perduto, la sua vera potenza, la sua più alta dignità, di essere la creatura prediletta dal Signore ritornando alla Tradizione Sacra». «Non proponiamo quindi — continua — una nuova filosofia, una nuova arte, una nuova vita, ciò che avrebbe un ben scarso interesse in questa fucina di novità clamorosamente vuote e artificiali che è l’Europa moderna, anzi rifuggiamo assolutamente da ciò che dicesi comunemente “originale”, “personale” [...]. Noi proponiamo ciò che è più vecchio del mondo, il ritorno allo spirito tradizionale [...]. Questo ritorno significa per noi coscienza dell’ordine divino, riassetto di una società tradizionale secondo il Regnum e l’Imperium, l’autorità spirituale e il potere temporale armonicamente sviluppantisi nello stesso ambito tradizionale».


Orizzonti metafisici 
 Una concezione rigorosamente sacra del mondo e della vita domina, dunque, e l’opera e il pensiero di Guido De Giorgio. Non c’è occasione nella quale egli non ribadisca — con stile martellante che ci riporta alle invettive del miglior Nietzsche — la sua più radicale e sanguigna idiosincrasia nei confronti dei «lugubri surrogati» di certo sedicente filosofare contemporaneo, «sistematicamente imbecille», il quale si contrappone, con «presuntuosa pienezza», alla «divina follia delle Religioni». Là dove folle e proterva e prometeica è, invece, l’illusione, anche questa tutta moderna, che il mondo si regga da sé e che l’uomo, «splendida inconsistenza transeunte, maschera mobile su cui dilaga il mare del divenire», possa fare a meno di Dio. Di quell’Ente Supremo che «s’immilla rimanendo uno», che «si dà perché Gli sia dato», che «si offre perché Gli sia offerto». «Ogni forma tradizionale è quindi strettamente ortodossa e la sua norma è inassociabile a quella di altre tradizioni perché in tal caso si giungerebbe ad un assurdo, la confusione dei punti di partenza, l’immistione delle vie realizzatrici, l’impossibilità di seguire un processo definitivo e risolutivo: ogni tentativo di tal fgenere è condannato alla sterilità perché proviene da un’unione mostruosa. Quindi si condanna da sé ogni forma di sincretismo [...]. È consigliabile perciò ed è prudente che gli uomini, per il destino delle loro anime, aderiscano alla tradizione a cui appartengono senza condannare — ciò che sarebbe assurdo — e senza occuparsi delle altre forme tradizionali per interpretarle erroneamente e cercare di confonderle con la propria».




In Dio e il Poeta — opera postuma — De Giorgio descrive, con toni lirici e accorati,  il «precipitato» della sua incandescente esperienza interiore, prodotto di una forsennata e a tratti «eroica» autodisciplina ascetica degna di uno yogi. Libro, questo, che — come è stato giustamente osservato — testimonia, in modo commovente e originale, di «uno sforzo a vibrare all’unisono» con quell’insieme di note ineffabili di cui è costellato il sentiero di chi abdica a tutto se stesso ritrovarsi in Dio. Qui, il  lato «attivo», più squisitamente «realizzativo», di Guido De Giorgio prende il sopravvento su quello «contemplativo». Corda tesa tra l’«Io» e l’«Universo», l’anima si getta nella fornace ardente del «Mistero Divino» e ne esce come trasfigurata, come «imparadisata». Il dialogo tra «Dio» e il «Poeta» non è — infatti — che un continuo susseguirsi e accavallarsi di illuminazioni subitanee e folgoranti dal sapore cosmico-monistico come questa: «Sapere che tutto, dal verme alla stella, converge in Lui, che tutto, in noi, in profondo come in superficie, è Lui, che Lui è in tutto e tutto in Lui, che l’universalità degli esseri, delle cose, dei fatti, delle azioni apparentemente contrarie, apparentemente consone alla Sua legge, è Lui, che virtù, peccato, bene, male, è Lui, che nulla può sottrarsi alla fatalità tremenda della Sua Presenza, che dall’inizio alla fine è sempre Lui...».
E ancora: «La Scienza Sacra guarda il mondo in Dio e vede circolare dominicalmente Dio nel mondo onde tutto si dematerializza e s’incanta nell’onda vivificante della Pace. Male e bene, bello e brutto, Dio e non-Dio, tutto è Dio, perché il mondo senza Dio è un otre vuoto gonfio di vento, vanità del pieno precario, inadeguazione, insufficienza, morte [...]. Ogni cosa, ogni essere, nell’ambito del sacro, diventa grado della scala dell’infinito, è indice i potenza perché espressione d’amore. Com’è detto nella tradizione islamica, Egli era un tesoro nascosto, volle essere conosciuto e fece balenare da Sé la creazione, affinché fosse il cento dell’Amore Universale, affinché tutto ciò che appare facesse capo a Ciò che solo è e il sogno cosmico fosse fissato, radicato in Lui».

 Zero
Dopo essersi laureatosi in filosofia con una tesi di argomento orientalistico, De Giorgio, il cui padre svolgeva la professione di notaio, si trasferì in Tunisia, per insegnare italiano. Colà, entrerà ben presto in contatto con lo sheykh tunisino Mohammed Khayreddine, qualificato esponente di una delle più antiche confraternite locali. Probabile, vista la tutt’altro che superficiale conoscenza che sembra potersi evincere dagli scritti di de Giorgio di un certo sufismo di ceppo «monista», e della terminologia mistica araba, che quegli lo abbia «iniziato» all’esoterismo islamico.
All’indomani della prima guerra mondiale, De Giorgio è a Parigi. Nella capitale francese, città «magica» per eccellenza, stringe amicizia con René Guénon, da cui mutuerà in prima persona un orientamento venato da forti suggestioni di marca «induizzante». Tra i due nasce un intenso rapporto epistolare e di collaborazione, che offre, tra l’altro, a De Giorgio l’opportunità di comparire, sotto lo pseudonimo di «Zero», sulle colonne dei due più prestigiosi mensili francesi di studi iniziatici: Le Voile d’Isis e L’Initiation.
Gli anni ’20, segnati dal definitivo ritorno in Italia, coincidono per il De Giorgio con la partecipazione all’avventura dell’evoliano «Gruppo di Ur», alla cui omonima rivista (1927-28) egli reca contributi di grande spessore (basti pensare al saggio su «L’attimo e l’eterno», firmato «Havismat»), non senza esercitare contestualmente una certa influenza «rettificatrice» sullo stesso Evola, le cui tesi esasperatamente anti-cristiane e imperialistico-pagane non lo trovavano d’accordo. Nella sua autobiografia Il cammino del cinabro (I ed. Milano, Scheiwiller, 1963), Evola, comunque, non esiterà a riconoscere il debito contratto verso colui che avrà a definire come «una specie di iniziato allo stato selvaggio e caotico [...]». Havismat, alias De Giorgio, ricorda ancora Evola, «possedeva una cultura eccezionale, conosceva molte lingue, ma aveva un temperamento quanto mai instabile [...]. La sua insofferenza pel mondo moderno era tale, che egli si era ritirato fra i monti, da lui sentiti come il suo ambiente naturale e, in ultimo, in una canonica abbandonata vivendo quasi di nulla [...]. La sua influenza su me [...] ebbe relazione col suo drammatizzare e energizzare il concetto della Tradizione, che nel Guénon, a causa della di lui equazione personale, presentava tratti troppo formali e intellettuali...». 
Il connubio Evola-De Giorgio si cementò ulteriormente in concomitanza con l’uscita de La Torre (1930); significativo, ancorché effimero, tentativo giornalistico di stampo «super-fascista», di cui il De Giorgio sarebbe stato «uno degli ispiratori», se non «l’animatore invisibile». Nelle intenzioni di quest’ultimo, tanto i lettori quanto i collaboratori de La Torre, preso atto del ruolo positivo svolto dal fascismo in quanto movimento politico avverso alle forze telluriche della sovversione internazionale, avrebbero dovuto sforzarsi di agire per vie sottili affinché il regime si «universalizzasse», ricollegandosi a quella «norma assoluta il cui valore — come De Giorgio sottolineava in un suo editoriale dal titolo Mercuriales Viri — è nell’inesauribilità stessa del sua ambito sacro». «Noi — proseguiva in un crescendo di accenti — insorgiamo contro lo pseudo fascismo di coloro che vogliono amputare, mutilare la Romanità», onde ridurre questa a una mera «regola esterna di vita limitata all’hic et nunc della contingenza storica, una specie di politica di reazione; una forma mentis provvisoria, un habitus, impegnativo in sede di opportunistica aderenza».

Dall’istante all’Eternità...
Incapperebbe tuttavia in un errore a dir poco marchiano chi, spinto da buona o malafede, volesse ingabbiare, incapsulare nella facile e sbrigativa etichetta di «fascisti», gli ideali metapolitici, al di là della loro condivisibilità, di Guido De Giorgio; ideali troppo atipici e a sé stanti perché li si possa — oggi come oggi — esorcizzare  con formulette precotte, improntati, come si è cercato di dimostrare, a una lettura  essenzialmente metastorica e mito-poietica della «romanità». La quale per De Giorgio, si configura piuttosto, a nostro avviso, come un fenomeno archetipo a cui tendere nella prospettiva di una ipotetica «restaurazione dello spirito tradizionale». Vero è che egli parlerà, a più riprese, di un «Fascismo Sacro», come anche dell’opportunità di propiziare la «fascificazione dell’Europa e il mondo»; espressioni dettate da un temperamento «visionario» e, certo, suscettibili di indurre a malintesi, ma che davvero, nell’ottica degiorgiana, non hanno alcunché da spartire, se non alla lontana, con l’esperimento del Ventennio. Prova ne sia il fatto che De Giorgio addita nel contenuto occulto della Divina Commedia il modello più eccelso e perfetto di «Fascismo»!
Da questo punto di vista, avulso dalle dalle superficiali e retoriche travisazioni marionettistiche della romanità tipiche del regime mussoliniano, la «Città Eterna» assurge, per De Giorgio, nientemeno che al rango di vero e proprio «polo magnetico e spirituale», di «qibla dell’Occidente». Roma è tale perché in essa — e non altrove — il mondo classico e il mondo cristiano, il fuoco di Vesta e il legno della Croce, il Fascio etrusco e il mistico Tau, si sono fusi fino a compenetrarsi in una più elevata «sintesi», per mezzo della quale il cristianesimo si è fatto «romano», cioè «universale», in conformità a quanto virtualmente adombrato nell’immagine «bifronte» del Dio Giano.


Verso il crepuscolo
L’ultimo scorcio della sua esistenza, De Giorgio lo trascorse — per quel che se ne sa — all’insegna di un ripiegamento scettico e amaro. Forse un modo, questo, per sentirsi parte integrante di quel «Sacerdozio di asceti solitari», cui — in ogni tempo e luogo — spetta il compito, ingrato e gravoso, di combattere, armi in pugno, la «grande guerra santa». Tristi vicende personali, tra le quali la morte del figlio Havis, medaglia d’oro al valor militare, immolatosi al Passo Uarieu, lo indussero alla drastica scelta di estraniarsi — una volta per tutte — dalla «vanità», dalla «amorfia» che vedeva ribollire intorno a sé, dagli «irreali menadici — come un giorno li aveva chiamati — che si agitano monotonamente col formicolio cadaverico dei vermi». Non gli restava che qualche vetta su inerpicarsi a dorso nudo e la fede tetragona degli avi, a cui si aggrappò come lo scalatore che si tiene alla roccia più salda per non cadere a precipizio nel vuoto che inghiotte.
Poche notizie biografiche, raccolte qua e là, ce lo descrivono stanco, perseguitato dalla nomea di «stravagante», e per di più versante in gravi condizioni economiche e morali. Da una sua straziante lettera del 1954: «[...] Qui, in questa vecchia canonica che un giorno o l’altro ci cadrà in testa, c’è praticamente il caos, un ammasso, un accumularsi d’oggetti  più disparati [...]. Infine l’inverno, il grande inverno è passato e noi siamo ancora in piedi [...]. Non posso dirvi tutto quello che mi succede, queste brutte cose [...]. È una specie di persecuzione contro di me...».
Un po’ di conforto gli venne dall’incontro con un rude frate cappuccino in odor di santità e dalle mani piagate: Padre Pio da Pietrelcina. Al quale rese una memorabile visita, successivamente descritta in Ciò che mormora il vento del Gargano...; toccante opuscolo dove De Giorgio rievoca le circostanze del suo pellegrinaggio al convento di S. Giovanni Rotondo. «Il volo di Padre Pio oggi è più alto di quello di ieri: la sua messa dura esattamente due ore. Egli solo sull’altare celebra. Siamo a due teste da lui e seguiamo il filo dell’onda che si flette, pullula, s’apre e va. L’inno di umiliazione, per lui, per tutti noi, tutti i morti, per tutti i vivi, in assunzione integrativa, è mormorato in chiarità di spirito che accoglie tutte le anime, quello che in esse è visibile, e soprattutto quello che in esse non è visibile [...]. Toccato il fondo, il corpo si eleva, le mani si stendono, gli occhi si sublimano, un’ala candidissima capta il soffio di Dio e lo inonda sugli oblata quando mormora Veni Sanctificator omnipotens aeterne Deus... mentre la povera santa man traccia la croce della santificazione nel nome di Chi solo ha un nome degno di essere nominato».
Imboccò, così, all’ombra delle Alpi, l’impervio sentiero che porta al tramonto. Ci piace pensare che egli abbia, alla fine, raggiunto quella rupe oltre la quale lo sguardo si perde, nel silenzio, tra le nubi...

Angelo Iacovella


Bibliografia

La Tradizione Romana, Milano, Flamen 1973.
Dio e il Poeta, Rescaldina (MI), La Queste 1985.
L’instant et l’éternité, et autres textes sur la Tradition, Milano, Archè 1987.
Ciò che mormora il vento del Gargano, Milano, Archè 1999.
Aforismi e Poesie, Milano, Archè 1999.
Prospettive della Tradizione [raccolta degli articoli pubblicati su «Diorama Filosofico»], Catania, Il Cinabro 1999.


Studi su G.D.G.

Pietro Di Vona, Evola, Guénon, De Giorgio, Scanziano (RE), Sear 1993.
Philippe Baillet, Guido De Giorgio, in «Politica Hermetica», n. 1 (1987).
Renato Del Ponte, Evola e il magico “Gruppo di Ur”, Bozano, Sear 1994, spec. le pp. 50-51.


Giuseppe Tucci: quella certa idea dell'Oriente




Ventotto anni or sono, esattamente all’indomani del 5 aprile 1984, l’orientalistica italiana si ritrovò d’un tratto orfana di uno tra i suoi «figli» più illustri: Giuseppe Tucci. A partire da allora, tanto tra gli «specialisti», quanto tra i semplici «appassionati» dell’Oriente, sempre più acuta si è fatta la percezione del vuoto, per molti versi incolmabile, lasciato da quella scomparsa; un vuoto fortunatamente — e almeno in parte — compensato dal crescente interesse venutosi a creare intorno alla biografia e alla produzione saggistica di Tucci, l’una, come vedremo, non meno affascinante e significativa dell’altra.
A differenza degli ottocenteschi «professoroni» alla Max Müller (quelli — tanto per capirci — abilissimi nel comporre voluminosi trattati sui paesi più lontani restandosene comodamente seduti in panciolle al chiuso di accoglienti biblioteche), a differenza di questi, dicevamo, l’Oriente Tucci lo aveva — e ci si passi l’espressione — «calpestato», a piedi o sul dorso di un cammello. Da buon marchigiano, due cose — come disse un giorno di sé — aveva amate sopra tutte: «la montagna, come i pastori, e il Sole, come Giuliano l’Apostata». Mai fu, pertanto, quello che si chiamerebbe un «accademico sedentario», anche se avrebbe potuto, volendolo, umiliare chicchessia con il solo sfoderare il suo sanscrito impeccabile, il suo tibetano fluente, il suo giapponese da samurai; idiomi perfezionati nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni e andirivieni between East and West, quando ancora ci si spostava a bordo di aristocratici piroscafi. No. Tucci apparteneva, semmai, a quelle paste d’uomo — assai rare al giorno d’oggi — che l’idea di una «tranquilla» carriera universitaria, fine a se stessa, avulsa dalla vita reale, mai avrebbe potuto appagare fino in fondo. Viceversa, in lui — come ha scritto l’indologo Maurizio Taddei, suo discepolo, in pagine di commossa rievocazione — sempre «lo studio a tavolino si accompagnò alla conoscenza diretta dei luoghi e delle genti: fin dal 1925 in India (...), dove conobbe Tagore e Gandhi, poi — dal 1929 al 1948 — otto volte nel Tibet e — dal 1950 al 1954 — sei volte nel Nepal. Da queste spedizioni, imprese ammirevoli anche dal punto di vista fisico (...), egli trasse lo spunto per opere di divulgazione che ebbero ampia e incisiva diffusione non soltanto in Italia» («Giuseppe Tucci (1894-1984)», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, vol. 44, p. 702. Il corsivo è nostro).
Detto questo, ben si capisce come, nel caso di Tucci, un approccio «libresco», tale da scindere artificiosamente lo studioso dal viaggiatore, finirebbe coll’essere troppo riduttivo, e non renderebbe giustizia a un personaggio il cui contributo alla cultura italiana si colloca molto al di là del «chiuso orto» delle discipline orientalistiche intese in senso stretto.

SULLE ORME DI ALESSANDRO
Tucci era nato a Macerata, alla fine del secolo scorso (nel 1894, per l’esattezza). Giovanissimo, dopo aver pubblicato rispettivamente nel 1911 e 1912 due saggi di epigrafia e di antroponomastica latine, si volse all’approfondimento delle civiltà orientali, campo nel quale raggiunse ben presto una competenza universalmente riconosciuta. Sennonché, l’India, la Cina, il Tibet, il Giappone, l’Asia tutta, con il suo primordiale bagaglio di tradizioni, di miti e di riti, rappresentavano, per lui, molto più che delle fredde «materie» su cui affondare il bisturi della ragione ragionante. Vere e proprie «forme dello Spirito»: tali si configuravano, piuttosto, agli occhi del Tucci, le grandi religioni e filosofie orientali, alla cui evoluzione nel tempo e nello spazio egli dedicò i suoi primi saggi, tra i quali Storia della Filosofia cinese (1922), Apologia del Taoismo (1924), il Buddhismo (1926); monografie dove a una sicura padronanza dell’argomento si accompagna uno stile limpido e brillante, sì da soddisfare le esigenze di un pubblico non erudito. Seguiranno lavori più marcatamente «scientifici», a cominciare dai quattro prestigiosi (e ponderosi) volumi di Indo-Tibetica, editi tra il 1932 e il 1941 per i tipi della Reale Accademia d’Italia.
Professore nelle università di Shantiniketan e di Calcutta, Tucci era noto, tra gli Indiani, per i suoi modi eccentrici, che, abbinati alle straordinarie doti personali, ne fecero una «leggenda» vivente. Mircea Eliade, che nella terra del Dio Gange lo aveva conosciuto e frequentato dappresso, ne parlava ammirato, non senza una punta di comprensibile invidia, come di un uomo che, oltre a cavarsela benissimo in «tutte le lingue», era «pure bello e seducente»: «Portava lo smoking con rara eleganza, benché girasse sempre con un manoscritto nella tasca posteriore (...). Non dormiva più di due o tre ore per notte. Si occupava a quel tempo [1929;  n.d.r] della traduzione in sanscrito di alcuni testi di logica cinese. Camminava per la stanza col testo cinese in mano, e traduceva ogni frase a voce alta. Quando non riusciva ad azzeccare la parola esatta, lanciava contro la porta il pugnale con cui giocava. I suoi domestici credevano che invocasse gli spiriti e lo abbandonavano gli uni dopo gli altri (...). Le ampie finestre aperte sulla campagna, la lampada accesa tutta la notte in una stanza dove i libri e i manoscritti erano sparpagliati per terra e dentro alcune casse aperte o su mensole ricoperte di polvere. Tucci si muoveva da un angolo all’altro, il pugnale in una mano, il testo cinese nell’altra (...).
L’ultima volta che lo incontrai è stato sulla nave che ci portava entrambi verso l’Europa (...). Lo scorgevo talvolta nel salone di prima classe mentre leggeva una commediola sanscrita e rideva fra sé, così che le inglesi si giravano sussurrando in francese per non essere intese dal poveruomo: «C’est un peu fou et très comique, n’est-ce pas?...». La notte passeggiavamo tutte e due in coperta ed egli mi faceva l’analisi dei più oscuri sistemi filosofici indiani, mi raccontava le biografie di lama morti cinque secoli prima (...). Una volta, allorché mi si chiudevano le palpebre dal sonno e gli davo la buonanotte, mi disse: «Non so che cos’ho, non riesco più a dormire del tutto». Lo guardai negli occhi e lui distolse immediatamente lo sguardo, lasciandolo riposare sull’oceano. Ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un uomo che voleva sfuggire a qualcosa, confessare qualcosa di straordinario, di terribile. Forse una solitudine impietrita come quell’oceano che ci circondava» (M. Eliade, Diario d’India, Torino 1995, pp. 62 e ss.).

UNO SGUARDO AD ORIENTE
Al principiare degli anni Trenta, tornato che fu in patria, Tucci indirizzò tutti i suoi sforzi alla realizzazione di un istituto di studi orientali, con cui colmare i troppi e ingiustificabili ritardi accumulati dal nostro paese in quello specifico campo. Nacque così, nel 1933, con il fondamentale aiuto — non bisogna dimenticarlo — di Giovanni Gentile, l’IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente). Tucci — con il geniale intuito di chi precorre i tempi — volle e ottenne che a questa sua «creatura» venisse riconosciuta libertà di movimento e un’assoluta autonomia dalle istituzioni accademiche già esistenti, per le quali — in verità — non nutriva una grandissima considerazione. Confessò anzi, più volte, di trovarsi a disagio nell’università italiana, che gli appariva come una specie di «malconnesso rottame». Fu anche questa sua, mai sopita, insofferenza per un sapere schiavo delle note a pie’ di pagina, che lo spinsero a farsi guida e promotore di importanti spedizioni archeologiche, tra cui quella che lo condusse, nel 1955, alla valle dello Swat, nelle impervie e malnote regioni del Pakistan settentrionale. Le numerose «missioni» intraprese per conto del governo italiano, confermarono ulteriormente Tucci nell’idea di una sostanziale unità culturale del continente «euroasiatico», pur nella incontrovertibile pluralità delle esperienze storiche, linguistiche e religiose: «Troppo spesso si discorre di un’essenziale incomunicabilità dell’Oriente e dell’Occidente, di irreparabili divergenze e contrasti; ma chi esamini a fondo la cultura asiatica, a parte le naturali differenze e varietà e diverso modo di considerare l’uomo e la vita e di esprimere nell’arte o nel pensiero le proprie ansie ed aspettazioni, o nella filosofia e nelle religioni i propri problemi e le proprie intuizioni, vi troverà tuttavia la rifrangenza variamente colorata delle stesse cure e angosce e speranze che hanno agitato, tormentato e illuminato il nostro cammino» (introduzione a AA.VV., Le civiltà dell’Oriente, Roma 1956). 
Molti sono i volumi usciti dalla penna di  Tucci «esploratore», e ognuno — naturalmente — meriterebbe una disamina a parte. Ci limitiamo a ricordarne alcuni: Santi e Briganti nel Tibeignoto (1937); A Lhasa e Oltre (1950); Tra giunge e pagode (1956). Nepal. Alla scoperta dei Malla (1960). Pagine insuperabili di storia, di arte, di archeologia, di antropologia dell’Asia, nelle quali, più che altrove, la «vena narrativa» dell’autore scorre libera e felice. Lo sguardo di Tucci si posa, curioso,  sulle colonne di un tempio, prende nota di una lapide, oppure ci descrive la veste stracciata di un sadhu o monaco ambulante. Come per incanto, anche il più insignificante dei dettagli si anima e rivela il senso arcano di un interrogativo millenario.
Si spense novantenne, in quel di S. Polo de’ Cavalieri, un turrito paesino non molto distante da Roma, il cui paesaggio gli ricordava gli immortali altipiani dell’Asia Centrale. Aveva viaggiato molto, troppo per non rendersi conto che più ci si inoltra lungo sentieri nascosti e lontanissimi, alla ricerca di qualcosa, più la sete di conoscere cresce e si dilata. Ogni scoperta risolve domande e altre ne pone. Ma di questo Tucci mai si dolse, perché sapeva, meglio di chiunque altro, che «dove c’è mistero l’uomo può imaginare e dove c’è certezza solo disperare». 

Raimondo di Pennaforte



CRESTOMAZIA TUCCIANA

Io ho sempre considerato le credenze umane — quelle che i padri ci trasmettono con il sangue e che troviamo quasi solidificate nelle opinioni comuni fino a che nuove idee, insinuandovisi, non le sconvolgono — come una realtà invisibile, logicamente indimostrabile eppure presente e viva assai più delle cose che si toccano con mano: un’aura misteriosa che ci avvolge e nella quale ci muoviamo e che ad andarci contro ci si sente quasi mozzare il fiato, come succede a chi corra contro vento. Per la qual cosa, dovunque mi trovi, cerco sempre di mettermi in sintonia con cotesta atmosfera spirituale che io sento nuova e diversa, ma che mi investe e poi mi trascina. Anche adesso debbo dimenticarmi di essere un europeo, abituato a giudicare tutto al lume della logica e a distillare concetti con l’alambicco dell’intelletto; debbo quasi dissolvere la mia personalità nel subconscio collettivo di questo popolo che mi ospita, come in un mare tranquillo sul quale ancora non freme vento di opinioni nuove e ribelli. Prima di mettermi in camino farò come fanno i Tibetani che, sul punto di intraprendere un viaggio o, comunque, quando avvertono per misteriosi suggerimenti la imminenza di forze ostili, ricorrono a una cerimonia propiziatoria ed esorcistica che si chiama barcè selvà «eliminazione degli ostacoli» (...).
Certi riti non si capiscono con la descrizione che ne puoi leggere sui libri; bisogna vederli. E poi, chissà? Io per natura ho sempre creduto più alle cose che non vedo che a quelle di cui la scienza mi vuole far certo e che oggi sono in un modo e domani in un altro. Togli all’uomo l’imprevisto ed il mistero ed il vivere si riduce a un noioso transito di cibo.
(A Lhasa e oltre)



Altri fondava imperi: gli italiani preferirono essere apostoli di cultura, fecero da ponte. Ed è la nostra gloria. Non c’è opera fondata sull’azione che non invecchi, si dissolva, si schianti; gli imperi crescono e si dilatano con una logica fatale e capricciosa in una potenza che come un fuoco d’artificio sale, s’espande in lucente girandola, scintilla in un ardore di vita e di morte per spegnersi sollecita nel buoi del nulla: e di sè lascia soltanto faville di rancori e di odi. Invece la rivelazione dell’arte, la collaborazione nel pensiero, il generoso rispetto per le infinite modulazioni della mente e dello spirito sono dono e ricchezza che il tempo non logora. Lo vedete. Oggi la parentesi che condusse l’Occidente a dominare sull’Oriente è conclusa. L’Asia si è redenta: questa è la realtà irrevocabile alla quale è stolto o vano chiudere gli occhi (...).
Rispetto ai tempi di Marco Polo, più sottili ma non per questo più cedevoli incomprensioni, prevenzioni, impressioni od incompatibilità gettano un’ombra cieca sulla prossimità fra l’Asia e l’Europa che il mondo, rimpicciolito dalla tecnica, ha reso quasi coabitazione; e per causa di quel fraintendimento la prossimità fisica non diventa spirituale. L’opera che Marco annuncia non è dunque ancora compiuta. Egli splende della grandezza eterna dei simboli, pioniere, allora ed oggi, di una comunione fiduciosa fra due culture antichissime; e guida perché queste, congiungendosi, nella fratellanza che è privilegio delle cose dello spirito, cooperino per il comune bene a nuove armonie di pensieri e di imagini, sola illusione d’eternità che galleggia sulla insaziata voracità del tempo. 
(Marco Polo)

La storia della religione indiana può definirsi un faticoso tendere alla conquista della autocoscienza; e, naturalmente, quel che si dice della religione, si deve ripetere della filosofia, com’è da attendersi in un paese dove religione e filosofia restarono fuse nell’unità di una visione (darçana) che serve ad una esperienza (sadhana). In India l’intelletto non ha mai così prevalso da sovrapporsi alle facoltà dell’anima e distaccarsene in modo da provocare la pericolosa scissione tra sè medesimo e la psiche, che è malattia di cui soffre l’occidente (...). L’intelletto puro, distaccato dall’animo, è la morte dell’uomo; l’intelletto, troppo presumendo di sè ed isolandosi in una boriosa compiacenza, invece di nobilitare l’uomo lo umilia e lo spersonifica: uccide quella amorosa partecipazione alla vita delle cose e delle creature di cui l’anima è capace con le sue emozioni ed intuizioni; l’intelletto per sè solo è cosa morta ed assassina, un principio di disintegrazione. In India invece l’intelletto non si è mai dissociato dall’anima, di maniera che il mondo del subconscio non fu mai negato e respinto ma convogliato e trasfigurato in un processo armonioso inteso a riconquistare la autocoscienza: coscienza di un io che non è, naturalmente, l’io singolo, ma l’Io, la coscienza cosmica da cui tutto deriva e a cui tutto si riconduce.
(Teoria e pratica del mandala)


Campagne di scavo, viaggi di esplorazione e simili ricerche, intraprese con più vasto raggio e con maggiore impegno, dovrebbero continuare l’antica nostra tradizione umanistica, ardente e disinteressata, che fu ponte spirituale tra Oriente e Occidente e a poco a poco far cadere l’illusione che il sole splendesse soltanto in Europa e quivi unicamente l’uomo fosse privilegiata creatura nella quale, in perfetto e quasi divino equilibrio, l’imaginazione si congiunge alla sottigliezza logica ed il fuoco dell’estasi mistica viene mitigato da una spensierata bramosia di vita. In questo puntiglioso periodo nel quale viviamo, quando l’ingegno sembra tutto intento a scoprire, definire, inasprire le native necessarie diversità tra le opinioni ed i popoli, occorrerebbe più che mai secondare codeste imprese. Esse infatti accrescono prestigio al paese che le compie ed insieme rendono omaggio alla cultura d’altre stirpi, nell’abbraccio sereno della cultura ritrovando, sotto ogni cielo, quella medesima nostra umanità che tanto odia ed invece dovrebbe tanto compatire: perché dovunque e dappertutto, come ammonisce un filosofo indiano, risuona la medesima domanda senza risposta: «si ottengano pure ricchezze tali che soddisfino ogni desiderio, e poi? si ponga pure il piede sul collo del nemico, e poi? si colmino pure di agi e di onori tutti quelli che ci sono devoti, e poi? ci sia pur concesso di vivere mille anni, e poi?».
(Tra giungle e pagode)


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE TUCCIANA

Scritti di Mencio. Lanciano, Carabba 1921.
Storia della filosofia cinese antica. Bologna, Zanichelli 1922.
Apologia del Taoismo. Roma, Formiggini 1924.
Il Buddhismo. Foligno, Campitelli, 1926.
Saggezza cinese. Torino, Paravia 1926.
Indo-Tibetica I. Roma, Reale Accademia d’Italia 1932.
Indo-Tibetica II. Roma, Reale Accademia d’Italia 1933.
Indo-Tibetica III. Roma, Reale Accademia d’Italia 1935.
Indo-Tibetica III (parte II). Roma, Reale Accademia d’Italia 1936.
Santi e briganti nel Tibet ignoto. Milano, Hoepli 1937.
Forme dello spirito asiatico. Milano-Messina, Principato 1940.
Indo-Tibetica IV. Roma, Reale Accademia d’Italia 1941.
Il Buscido. Firenze, Le Monnier1942.
Il Giappone. Tradizione storica e tradizione artistica. Milano, Bocca 1943.
Asia religiosa. Roma, Partenia 1946.
Il libro tibetano dei morti. Milano, Bocca 1949.
Tibetan Painted Scrolls. Roma, Libreria dello Stato1949.
Teoria e pratica del Mandala. Roma, Astrolabio 1949.
Italia e Oriente. Milano, Garzanti 1949.
A Lhasa e oltre. Roma, Libreria dello Stato 1950.
Tra giungle e pagode. Roma, Libreria dello Stato 1953.
Marco Polo. Roma, IsMEO 1954.
Minor Buddhist Texts I. Roma, IsMEO 1956.
Storia della filosofia indiana. Bari, Laterza 1957.
Minor Buddhist Texts II. Roma, IsMEO 1958.
Le grandi vie di comunicazione Europa-Asia Torino, Edizioni Radio Italiana 1958.
Nepal. Alla scoperta dei Malla. Bari, Leonardo da Vinci 1960.
La via dello Svat. Bari, Leonardo da Vinci 1963.
Tibet, paese delle nevi. Novara, Istituto Geografico de Agostini 1967.
Il trono di diamante, Bari, De Donato 1967.
Rati-lîlâ. An interpretation of Tantric imagery of the temples of Nepal. Geneva, Nagel 1968.
Le religioni del Tibet. Roma, Edizioni Mediterranee 1970.
Opera Minora (2 voll.). Roma, Bardi 1971.
Minor Buddhist Texts III. Roma, IsMEO 1971.
Tibet, Ginevra, Nagel 1973.

* Per un elenco bibliografico esaustivo, vedasi: Luciano Petech e Fabio Scialpi, «The Works of Giuseppe Tucci», in East and West, vol. XXXIV, nn. 1-3 (settembre 1984), pp. 23-42.  Ulteriori approfondimenti sul significato dell’opera tucciana, li si potrà ricavare dalla lettura del volume miscellaneo Giuseppe Tucci nel centenario della nascita, Roma, IsMEO 1995, a cura di Beniamino Melasecchi.



sabato 11 febbraio 2012

Scienza sacra e conoscenza: Titus Burckhardt



Titus Burckhardt — da non confondersi con l’omonimo Jacob — nacque a Firenze nell’anno del Signore 1908, figlio dello scultore elvetico Carl Burckhardt, e scomparve a Losanna nel 1984. Rampollo di un insigne casato originario di Basilea, il cui fronzuto albero genealogico largheggiava di artisti e letterati, il giovane Titus crebbe come immerso nella rarefatta atmosfera intellettuale che aleggiava tra le pareti, tutt’altro che asfittiche e stagne, della dimora avita. Al raggiungimento della maggiore età, non sappiamo se per formale ossequio a una, chiamiamola così, “prassi di famiglia”, lungamente respirata, o se per una naturale, innata tendenza ad amare il “Buono e Bello” di classica memoria, scelse — senza esitazioni — di abbracciare la professione paterna, consacrandosi contemporaneamente allo studio dell’arte e dell’architettura, specie di quelle antiche e medievali.


Alla scoperta dell'Oriente 

Nel 1935,  in occasione di un viaggio in Marocco, Burckhardt restò affascinato dalla civiltà islamica e dalle sue forme espressive meno scontate, come, ad esempio, l’organizzazione  delle locali corporazioni di mestiere e l’artigianato: tutti frutti tangibili di una cultura materiale (e immateriale) più che millenaria, a cui Burckhardt si accostò con un rigore metodologico e filologico scevro dalle fantasie di un certo orientalismo di stampo esoticheggiante. Si iscrisse, pertanto, all’Università di Fez, tra le più antiche e prestigiose del mondo musulmano, i corsi della quale spaziavano, come nel Medioevo, dalla teologia alla scienza, dall’esegesi coranica al diritto, dalla filosofia alla grammatica.
Iniziato ai ‘meccanismi cabbalistici e numerologici che presiedono al funzionamento della lingua araba (idioma santo per eccellenza), Burckhardt se ne avvarrà, successivamente, come di una chiave, per farsi strada tra i testi, il più delle volte ermetici, dei principali esponenti dell’esoterismo islamico; primo fra tutti, quel Muhyiddîn Ibn ‘Arabî (1165-1240), magister maximus della speculazione sufica, del quale avrebbe, con mirabile aderenza all’originale, tradotto e commentato una delle opere dai contenuti più complessi: La Sapienza dei Profeti (Paris, 1955; titolo originale: Fuçuç al-Hikam; pubblicata in Italia per tipi delle Mediterranee, nella collana, fondata e diretta da Evola, «Orizzonti dello Spirito»).
Il triennio che si estende dallo scoppio della seconda Guerra Mondiale al 1942, vede Burckhardt alacremente impegnato a perfezionare la sua formazione accademica presso l’ateneo di Basilea, dove, appunto, si addottora in lingue orientali e in storia dell’arte: due branche del sapere, due “passioni”, da cui la sua fertile e impeccabile produzione di saggista sarà sempre fecondata. Assume, in seguito, la direzione della «Urs Graf Verlag», una casa editrice specializzata nella riproduzione in facsimile di manoscritti miniati, tra quali ci limitiamo a ricordare il «Libro di Kells» e l’«Evangelario Lindisfarne». Tornerà in Marocco tra il 1972 e il 1977, in veste, questa volta, di delegato dell’UNESCO, con il compito di guidare una commissione di esperti incaricati della salvaguardia dell’antiqua forma urbis di Fez e del suo incomparabile patrimonio monumentale.


Scienza versus conoscenza

Ben si inserisce, la figura di Burckhardt, nell’ambito di quella corrente di pensiero alla quale, per comodità, si è convenuto di attribuire la definizione di “spiritualista” o “tradizionale”. Dove per “tradizione” è da intendersi quell’insieme di dottrine e di insegnamenti di matrice sovrasensibile, che in virtù di questo loro stretto atteggiarsi in rapporto alla sfera della “metafisica”, trascendono di gran lunga la ragione logica e calcolatrice di cui tanto fieri vanno gli occidentali “sviluppati”. Nell’ottica di Burckhardt, la “conoscenza” è, nel senso più nobile e ampio del termine, il portato di una «visione realmente spirituale delle cose», e non, checché ne pensino e ne dicano i cocciuti alabardieri dello scientismo, un bruto accumulo di nozioni empiriche  cartesianamente desunte dall’osservazione della materia, tale e quale: «La “grande” prova a favore della scienza moderna — come osservò acutamente a questo riguardo — sta nel suo successo tecnico; esso ha un grosso peso nella coscienza della folla, ma un peso assai minore agli occhi degli scienziati che si rendono perfettamente conto quante volte una scoperta tecnica sia stata fatta sulla base di teorie del tutto insufficienti o addirittura errate (…); una teoria può infatti cogliere la realtà della natura nella misura in cui una certa applicazione tecnica lo richieda, e tuttavia ignorarne la vera essenza» (in: Scienza moderna e saggezza tradizionale, Torino, Borla 1968, p. 45).
Paradossalmente, per Burckhardt, il difetto genetico inscritto nel DNA di una certa mentalità positivistica non sta tanto nello scalpitante “progresso” della téchnē,  che a questa si è accompagnato e si accompagna tuttora — progresso, in ogni caso, sempre più foriero di «effetti micidiali in tutto il regno del vivente» —, quanto, piuttosto, nella pretesa faustiana di tutto spiegare, di tutto interpretare, alla luce di un “canone” razionalistico, allergico, per antonomasia, all’idea di Dio. Pretesa la quale, a conti fatti, non può che tradursi nel «capovolgimento metodico» di tutte le «gerarchie visibili in questo mondo», nel «fatto di subordinare gli aspetti qualitativi dell’esistenza a quelli quantitativi (…), di ricondurre dati psichici a dati meramente fisiologici..».


Deus Absconditus

Prigioniero di questa concezione profana del mondo e della vita, stando a Burckhardt, l’uomo dell’evo moderno ha finito, dunque, per recidere quella rete di “fili” sottili, e quasi impercettibili, che facevano sì che i suoi progenitori si sentissero parte integrante del cosmo circostante, e non malate “escrescenze” di un universo governato da demiurghi muti e capricciosi. Al Dio-creatore delle grandi religioni monoteistiche, si è, così, via via sostituita la “Grande Illusione” dell’Ego, alimentata a dismisura dai fumosi arzigogoli abracadabranti e dal «relativismo disintegrante» della  psicoanalisi. Freudiano o junghiano che sia, lo psicoanalista — afferma  Burckhardt senza peli sulla lingua — sembra aver assunto il ruolo e il carisma che, in altri tempi, spettavano al sacerdote «nel sacramento della confessione». Sennonché, mentre «nella confessione sacramentale il sacerdote non è che il Vicario impersonale — e perciò necessariamente riservato — della verità divina che condanna e perdona (…)», nel caso della psicologia contemporanea, «l’uomo non si mette psichicamente a nudo dinanzi a Dio, bensì dinanzi al suo prossimo; egli non si distanzia dai sottofondi caotici e tenebrosi della propria psiche rivelatigli dalla analisi, ma anzi li fa suoi…».


Sacralità dell'arte

In un mondo siffatto, dove tutta la gamma delle esperienze possibili e immaginabili sembra fatalmente destinata a scadere nel soggettivismo più esasperato, è inevitabile che tutti i fenomeni estetici ne risentano in senso negativo. Burckhardt, in opere come Siena, città della vergine (1958) o Chartres und die Geburt der Kathedral (1962), si è a lungo soffermato sugli elementi distintivi che, in antico, conferivano a questo o quell’edificio, a questa o quella creazione dell’ingegno umano, un’aura indelebile di “sacralità”. Un’opera artistica, o anche poetica (basti pensare alla Divina Commedia), può dirsi dunque sacra, nella “accezione” burckhardtiana, purché — conditio sine qua non — sia espressamente baciata da una «visione spirituale», che ne impronti la forma e il contenuto. Rientra infatti nella natura dell’arte sacra «d’essere insieme vera e bella, così toccando tutti gli strati dell’anima e al tempo stesso il cuore, la ragione, l’immaginazione e la percezione sensibile, colmandoli del presagio dell’unità divina». 
In poche parole: è ancora Dio che fa la differenza.

 Angelo Iacovella

Oltre il samsara

Prashna Upanishad – con il commento di Shankara, Edizioni Asram Vidya, Roma 2004. 


La Prashna Upanishad è una delle tredici Upanishad principali: appartiene al periodo delle Upanishad medie (post-vedico, ma pre-buddhista), è inscritta nel corpus del quarto Veda, l’Atharva-veda (relativo alla conoscenza di parole o suoni di potere, mantra, e quindi di contenuto eminentemente operativo, e riservato agli atharvan, i “sacerdoti del fuoco”), ed è ritenuta complementare alla Mundaka, della quale costituisce un Brahmana, cioè una sezione esegetica.
L’interpretazione dell’etimologia del termine upanishad è incerta, ma in ogni caso essa rimanda all’idea di sedersi vicino a un Maestro per ricevere istruzioni segrete o, meglio, l’Insegnamento ultimo, attinente alla Conoscenza Suprema (Paravidya). Le Upanishad costituiscono la parte finale della Shruti (la Tradizione direttamente rivelata) e la base su cui si fonda il Vedanta: l’essenza, il fine, il compimento dei Veda. Esse sono riservate ai sannyasin, ovvero a coloro i quali hanno rinunciato a perseguire qualsiasi mèta che non sia la Conoscenza di Sé. La rinuncia, sannyasa, costituisce nominalmente il quarto stadio della vita umana, al quale si dovrebbe accedere con la vecchiaia, ma in realtà esso si pone «al di là degli stadi di vita e degli ordini sociali» ed è «la condizione necessaria per intraprendere lo studio dei Testi Sacri, ricevere l’iniziazione (diksha) e l’istruzione (upadesha) da parte di un Guru qualificato».[1]
Prashna significa “domanda, quesito” e dunque quest’opera è l’“Upanishad delle domande”. I primi tre prashna ineriscono la conoscenza non-suprema; gli altri tre, la conoscenza suprema. Alcuni saggi, che hanno realizzato il Brahman saguna (con attributi, non-supremo), ma che aspirano alla conoscenza del Brahman supremo, si recano dal rishi Pippalada, portando nelle mani delle fascine di legna per il fuoco sacrificale, con l’intento di rivolgergli alcune domande. Prima però che essi possano formulare i loro quesiti, Pippalada (lett.: “colui che si nutre del fico selvatico”) li invita a soggiornare presso di lui per un anno, «praticando l’ascesi, il brahmacarya e la fede».[2] La pratica del brahmacarya è ritenuta fondamentale per accostarsi alla Scienza sacra; questo termine significa “continenza, padronanza completa dei sensi, castità”. Essa viene richiesta non tanto per motivi morali, quanto funzionali: è indispensabile una concentrazione totale e la mobilitazione di tutte le proprie risorse fisiche, energetiche, mentali e intuitive, per dedicarsi al risveglio della pura consapevolezza. Per “fede” si intende la più completa fiducia nel Maestro.
Nel “Primo Quesito”, Kabandhi Katyayana interroga Pippalada circa l’origine di tutte le creature. Il rishi risponde che Prajapati, personificazione dell’Essere universale, l’Unità qualificata (vishesha), anelando a una progenie, si immerge in meditazione e, manifestatosi come Hiranyagarbha (l’Uovo cosmico), proietta progressivamente, per mezzo della forza del fuoco ascetico,[3] la coppia-diade principiale (dvandva) formata da prana e rayi, il divoratore e il cibo, simbolicamente identificati con il Sole e la Luna. Non si tratta, tuttavia, come acutamente nota il Gruppo Kevala nell’Introduzione, di princìpi contrapposti, bensì di «gradi successivi», ovvero la Luna è compresa nel Sole, il quale è Vaishvanara, totalità del mondo formale e non-formale, Vishvarupa, Colui che si manifesta in ogni forma, e Agni, «il principio Fuoco che tutto consuma trasforma e riassorbe».[4] L’iter di reintegrazione è il seguente: il nutrimento-denso (adyam), dispensato dalla Luna, viene assorbito dal divoratore-sottile (atta), il Sole, e questo da Prajapati, ma sia il primo che il secondo costituiscono alimento per l’Unità causale da cui promanano.
Prajapati è anche il Tempo (kala), ossia l’Anno (samvatsara), con i suoi due corsi, meridionale e settentrionale. I saggi che aspirano ad una discendenza imboccano quello meridionale (dakshinayana) o via degli Antenati (pitriyana). Esso consiste nel compiere sacrifici, rituali, atti meritori e caritatevoli in conseguenza dei quali, dopo la morte, si raggiunge il mondo della Luna (candraloka), da dove, esauriti i buoni frutti maturati, si ritorna nella condizione umana. Coloro i quali, invece, imboccano il corso settentrionale (uttarayana) o via degli Dei (devayana), raggiungono il mondo del Sole (adityaloka) o mondo del Brahman (brahmaloka), dal quale non c’è ritorno. Percorrono questa via quelli che trasmutano i riti in meditazione, trascendendo l’individualità e identificandosi in Prajapati, il Sé di tutto, libero dal calare e dal crescere, immutabile, esente da paura. Essa è preclusa ai non-conoscitori, poiché: «[...] coloro che sono immersi nell’ignoranza sono bloccati dal sole [...]».[5]
Del Sole, il sutra 11 afferma che possiede cinque piedi (stagioni), che ha dodici forme (mesi), che è «ricolmo d’acqua»,[6] dato che attiva la formazione delle nubi e la produzione di pioggia, e che in esso è fissato tutto l’universo.
Prajapati è il Mese, con la sua quindicina oscura, coincidente con rayi, e quella chiara, con il prana. I conoscitori del prana celebrano il sacrificio nella quindicina chiara, quelli che sono caratterizzati da una visione offuscata, nella quindicina oscura.
Prajapati è il Giorno, il prana, e la Notte, rayi. Quelli che si uniscono durante il giorno disperdono il prana, quelli che invece avvicinano la propria moglie durante la notte «[...] è proprio come se osservassero il brahmacarya».[7]
Prajapati è, infine, il cibo, dal quale proviene il seme, da cui procedono le creature. «[...] coloro i quali compiono il voto di Prajapati ottengono una coppia».[8] E cioè, i capofamiglia che compiono sacrifici, atti meritori, offerte e che si uniscono con la propria moglie nel tempo opportuno, ottengono un figlio e una figlia.
Nel “Secondo Quesito”, Vaidarbhi Bhargava, chiede al Maestro quante siano le forme divine (deva) che sostengono la creatura vivente, quali, tra loro, risplendano «[...] del fulgore della propria grandezza»[9] e quale sia la più importante. Pippalada risponde che le forme divine che sostengono il veicolo corporeo sono: lo spazio (akasha), l’aria (vayu), il fuoco (agni), l’acqua (apah), la terra (prithivi), ovvero i cinque elementi (mahabhutani) costituenti il corpo fisico; e la parola (vac), la mente (manah), l’occhio (cakshuh) e l’orecchio (shrotram), ovvero gli organi di azione e quelli di percezione. Tutti questi deva sono però sorretti dal prana principale, il quale si suddivide in essi.
Il prana è il sole, è Maghavan (Indra, il protettore, che distrugge i demoni), Rudra, la nube, il cibo, l’esistente (il denso) e il non esistente (il sottile, che non ha forma percepibile) e il nettare d’immortalità, «[...] cioè il mezzo di sostentamento per gli Dei».[10] Tutto è fondato nel prana: le tre specie di mantra (ric, yajus e sama), il sacrificio (yajna), gli ordini degli kshatriya e dei brahmana. Il prana è Prajapati stesso, colui che si muove nell’embrione come seme e come feto e nasce a somiglianza dei genitori; egli è il messaggero delle offerte agli Dei, la prima oblazione per gli Antenati, la retta condotta, il Sé onnipervadente, al quale tutti gli esseri viventi recano offerta, e il fruitore supremo (bhoktri), rispetto al quale tutto è oggetto di fruizione (bhojyam). «Tu sei colui che non deve essere purificato! O prana, sei l’unico Rishi, il Divoratore, il Signore della totalità. Noi siamo i datori del [tuo] cibo. Noi ti offriamo il nutrimento, o Matarishva, a Te che sei nostro Padre!».[11]
In questo Secondo Quesito l’Upanishad identifica inizialmente il prana all’aspetto denso della coscienza atmica che permea la forma in quanto energia vitale suddivisa nelle cinque funzioni (prana, apana, vyana, samana e udana), di cui si dirà meglio in seguito, indi estende l’identificazione alle funzioni organiche e ai deva (le loro controparti sottili) in ambito individuale e universale e, infine, lo identifica con il sommo Signore. Dunque il prana è l’Atman stesso che si manifesta, pervadendo progressivamente le diverse dimensioni o livelli della totalità.[12]
Nel “Terzo Quesito”, Kusalya Ashvalayana chiede: «O beato, donde trae origine il prana? In che modo entra nel corpo? E quindi, dopo essersi suddiviso, in che modo vi dimora? Attraverso che cosa ne fugge? In che modo sostiene l’esterno e in che modo il veicolo individuato?».[13] Il Maestro nota innanzitutto che l’interrogativo sull’origine del prana è di natura trascendente, poiché questo scaturisce dal Sé, dal supremo Purusha. Proprio come, sul piano sensibile, da un corpo umano si produce la sua ombra, così sul Brahman o Purusha è “disteso” questo principio detto prana, associato al jiva, l’anima individuata, riflesso dell’Atman. Esso penetra nel corpo attraverso l’attività mentale. Riguardo al “modo”, il prana principale presiede all’attività di tutti gli altri organi (della vista, dell’udito, ecc.), che sono sue modificazioni, come un «[...] sovrano si avvale dei suoi ministri [...]».[14]
A questo punto l’Upanishad dà indicazioni dettagliate sulla suddivisione del prana: apana, che controlla il flusso inferiore ed è collocato negli orifizi di escrezione e generazione; prana, che controlla il flusso superiore ed è collocato nel capo; samana, che controlla l’assimilazione e la distribuzione del nutrimento solido e liquido, riversandolo come un’offerta sacrificale nel fuoco corporeo, situato nello stomaco, da cui si levano “sette fiamme” (saptarcishah), corrispondenti ai sette organi di percezione collocati nel capo; vyana, che dalla regione del cuore si dirama attraverso centouno canali nervosi (nadi) primari, da cui se ne diramano altri settanduemila, pervadendo la totalità della struttuta sottile; udana, è il soffio vitale che scorre lungo la nadi verticale detta sushumna, esso conduce a un mondo divino se, al momento del trapasso, si dirige verso l’alto, a uno infernale, se scorre verso il basso, e al mondo umano quando il flusso ascendente (meriti) e quello discendente (demeriti) si mescolano. Il prana (nell’occhio, ecc.) corrisponde al sole, l’apana alla terra (prithivi), il samana allo spazio, il vyana all’aria, l’ udana alla luce.
Al momento della morte, quando la luce interna del soffio vitale sta per estinguersi, gli organi, e cioè i vari prana, vengono riassorbiti nella mente. È importante notare come nella Tradizione sapienziale l’essere individuato venga concepito come un altare sacrificale e le sue funzioni quali atti rituali. Da ciò si può desumere quanto nociva - da tutti i punti di vista, ante omnia da quello soteriologico - sia la pratica dell’espianto e del trapianto di organi vitali, la quale va ad interferire con il processo di riassorbimento gerarchico dei vari prana. Soltanto un grande Yogin, in samadhi, potrebbe reggere all’emozione e al dolore violenti derivanti dall’espianto del cuore o di un altro organo vitale.
«[Al tempo della morte] qualunque sia il suo pensiero, con quello va ad assorbirsi nel prana. Il prana associato con la luce, unendosi al sé [individuato, lo] conduce al mondo che egli ha concepito».[15]
Chi conosce «[...] l’origine, la penetrazione, la sede e il quintuplice potere del prana [...]»[16] ottiene una discendenza che non si interrompe e l’immortalità.
Nel “Quarto Quesito”, Sauryayani Gargya chiede al rishi Pippalada quali siano nell’essere umano gli organi (karanani) che si addormetano, cessando le proprie attività, quali rimangano desti, persistendo nelle loro attività, e quale sia tra questi due gruppi il deva che percepisce i sogni.[17] E ancora: «A quale compete, invece, questa felicità [del sonno profondo]? In quale [deva], invero, vanno a riassorbirsi [gli organi durante il sonno profondo]?».[18] Qui Shankara, nel suo Commento, ipotizza, a guisa di obiezione, il dubbio circa la dichiarazione che gli organi «[...] vadano ad unificarsi da qualche parte».[19] Egli chiarisce che «[...] dato che gli enti compositi dipendono sempre da un altro ente [non-composito], appare logico che essi vadano ad unificarsi in un [altro] ente durante il sonno»[20] e fa notare come l’ultimo interrogativo rimandi a Quello nel quale nel sonno profondo come nella dissoluzione universale (pralaya) si riassorbono i vari corpi: denso, sottile e causale.
Pippalada risponde che, allo stesso modo in cui i raggi si riassorbono e riunificano nel sole quando questo tramonta e di nuovo se ne diffondono quando sorge, così, nello stato di sonno con sogni, i sensi e i loro oggetti si riunificano nel deva che è la mente. Sulla “cittadella” del corpo addormentato vigilano i fuochi dei cinque soffi vitali del prana, proprio come simboleggiato nel rito dell’Agnihotra, il sacrificio rituale quotidiano che si celebra all’alba e dopo il tramonto. Il samana è il celebrante (hotri), poiché reca equamente le due oblazioni dell’ispirazione e dell’espirazione; la mente, che durante il sonno con sogni rimane sveglia, è il sacrificante (yajamanah); e l’udana, il soffio vitale ascendente, è il frutto del sacrificio poiché conduce la mente al Brahman, riassorbendola nello stato di sonno profondo senza sogni. Sebbene il passaggio attraverso i tre stati avvenga ugualmente per tutti gli uomini, soltanto il conoscitore lo vive consapevolmente; se ne deduce che soltanto l’uomo illuminato beneficia pienamente del frutto del sacrificio.[21]
Nello stato di sonno con sogni la mente non è influenzata dall’esperienza sensoriale, ma, pervasa da impressioni e desideri, percepisce e diventa essa stessa i propri contenuti interni. La libertà del conoscitore del campo (kshetrajna), essendo pura autocoscienza, non viene tuttavia limitata dall’attività mentale. Qui Shankara ipotizza un’ulteriore serie di obiezioni circa la strumentalità della mente, l’autoluminosità del jivatma, o la possibilità che i vari rami dei Veda conducano a conclusioni diverse, alle quali risponde esaurientemente.
Quando nel sonno la mente viene saturata dallo splendore del fluido vitale essa si ferma e permane «[...] immobile in forma di consapevolezza indistinta».[22] In questo stato di sonno profondo la mente non percepisce più i sogni, «[...] la porta della visione essendo ostruita dallo splendore»,[23] ed emerge la pura consapevolezza imperturbata e onnipervadente. La vera natura del Sé che, durante lo stato di veglia e di sonno con sogni, «[...] appare alterata a causa delle sovrapposizioni limitanti, si svela non-duale, unica, benefica e pacificata».[24] Come «[...] gli uccelli si posano sull’albero che è il loro ricovero»,[25] così tutto il manifesto riposa nel Sé. «Invero questo è colui che vede, colui che tocca, colui che ascolta, colui che annusa, colui che assapora, colui che pensa, colui che conosce, colui che agisce, il sé che è conoscenza, il purusha: esso riposa nel supremo Sé, l’Immutabile».[26] Colui che conosce Quello che è senza ombra, senza corpo, senza colore, senza cambiamento, realizza l’Assoluto e diviene onnisciente.
Nel “Quinto Quesito”, Shaibya Satyakama chiede: «O beato, colui, tra gli uomini, il quale meditasse intensamente sulla sillaba Om fino alla dipartita, quale mondo, invero, conseguirebbe?».[27] Nel suo Commento Shankara nota che l’espressione «colui tra gli uomini» sta ad indicare un uomo non comune, dotato delle capacità di ritirare la mente dagli oggetti sensibili e di meditare intensamente sulla sillaba Om. Egli così definisce la “meditazione intensa” (abhidhyana): «[...] una consapevole identificazione (atmapratyaya) [con l’oggetto di meditazione] costante e ininterrotta e non turbata da contenuti estranei o di altro ordine [...]».[28]
L’Upanishad sottolinea come la sillaba Om sia lo stesso Brahman, conosciuto come supremo (param brahman) e non-supremo (aparam). Sebbene il primo non possa essere espresso con parole, non possa essere compreso con la mente e trascenda tutte le distinzioni, attributi, ecc., al saggio che mediti sulla sillaba Om si rende propizio e concede conoscenza.
La sillaba Om (omkaram) è composta da tre misure (matra): A, U, M. La lettera A corrisponde al piano denso della manifestazione, allo stato di esistenza Virat (nell’ordine universale) e vaishvanara (nell’ordine individuale), allo stato di veglia (jagrat). La lettera U corrisponde al piano sottile, allo stato di esistenza Hiranyagarbha (nell’ordine universale) e taijasa (nell’ordine individuale), allo stato di sogno (svapna). La lettera M corrisponde al piano causale, allo stato di esistenza Ishvara (nell’ordine universale) e prajna (in quello individuale), al sonno profondo senza sogni (sushupti). Queste corrispondenze, che potrebbero essere estese ai vari corpi o guaine (kosha) che avvolgono il Sé (l’Atman), costituiscono l’ossatura del linguaggio Vedanta. Se il ricercatore medita sulla prima misura, i mantra del Rig Veda lo condurranno presto, dopo la morte, al mondo degli uomini in condizioni spiritualmente favorevoli. Se egli medita sulla seconda, i mantra dello Yajur Veda lo innalzeranno al mondo della Luna (Candraloka), dal quale, godutone lo splendore, tornerà al mondo umano. Se egli medita sulla terza, necessariamente costituita di tutte e tre le misure, A+U+M, i mantra del Sama Veda lo innalzeranno, affrancato dall’errore, al mondo di Brahma (Brahmaloka), integrandolo «[...] nel sole quale pura luce».[29]
Il sutra successivo precisa che «Le tre misure [prese singolarmente] sono circondate dalla morte».[30] Il manifesto, infatti, sia sul piano denso, che sottile e causale, è di natura transitoria. Ma se non le si applica differentemente, bensì come se fossero un tutt’uno «[...] il Conoscitore non è più turbato [da nulla]».[31] Chiosa Shankara: «Poiché, invero, tale conoscitore è divenuto il Sé di tutto e identico alla sillaba Om, donde mai potrebbe venire deviato? E verso dove?».[32]
In conclusione, per mezzo della sillaba Om il saggio consegue il triplice mondo, e cioè il Brahman non-supremo o saguna, con attributi, ma soltanto per mezzo dell’Om silenzioso, privo di misure (amatra), egli realizza il Brahman supremo o nirguna, l’Immutabile, la Realtà assoluta, pacificata, immortale, priva di paura.
Nel “Sesto Quesito”, l’ultimo, Sukesha Bharadvaja dichiara di aver risposto ad un principe di Kosala che lo interrogava sul Purusha dalle sedici parti: «[...] io non lo conosco. Se conoscessi questo [Purusha], perché mai non dovrei esportelo? Infatti, chi afferma il falso viene completamente disseccato sin dalle radici [...]».[33] E, rivolgendosi a Pippalada, conclude il primo sutra con la seguente domanda: «[...] dov’è quel Purusha.[34]
Per meglio far comprendere la domanda di Bharadvaja, Shankara, nel Commento, riassume quanto precedentemente sviluppato dall’Upanishad: «[...] l’intero universo, consistente in [una ininterrotta catena di] cause ed effetti, insieme con il principio di coscienza che è il sé [individuato], durante il sonno profondo riposa nel supremo Immutabile».[35] Se ne deduce che anche il mondo, al momento della dissoluzione cosmica (pralaya), viene riassorbito nell’Immutabile. Tutto trae origine da Quello e quindi, poiché si deve ammettere che un effetto non può che essere assorbito nella sua causa, ad esso ritorna. Significativamente Shankara nota che, secondo tutte le Upanishad, «[...] il Bene supremo discende solamente dalla piena realizzazione di Quello che è la radice dell’universo [...]».[36]
Pippalada alla domanda «[...] dov’è quel Purusha risponde: «Qui stesso, all’interno del corpo, mio caro [...]».[37] E cioè, il Purusha nel quale si manifestano, si originano le sedici parti (kala) si situa «[...] nello spazio all’interno del loto del cuore [...]».[38] Il Purusha è di per sé privo di parti, ma a causa dell’ignoranza principiale (avidya) appare composito. Per mezzo della conoscenza (jnana) le parti, che in realtà sono sovrapposizioni limitanti (upadhi), vengono rimosse e si realizza il Purusha in quanto Assoluto Non-duale.
Shankara spiega come «[...] l’origine, l’esistenza e il riassorbimento delle parti, che vengono sovrapposti [al Purusha], sono contenuti nella sfera dell’ignoranza; questo avviene perché le parti, al tempo della loro creazione, conservazione e dissoluzione, sono sempre percepite esistere non separatamente dalla coscienza».[39] E di seguito prende in considerazione i punti, confutandoli, in cui le dottrine dei buddhisti idealisti (vijnanavadin), dei buddhisti nichilisti (shunyavadin), dei sofisti (tarkika), dei materialisti (della scuola Lokayata), del darshana dualistico Samkhya, codificato da Kapila, divergono dall’interpretazione non-dualista (monismo assoluto) dell’insegnamento upanishadico.
Esaminare dettagliatamente le varie obiezioni poste e le confutazioni del grande acarya, codificatore dell’Advaita-vedanta, sarebbe assai interessante, ma richiederebbe uno studio a sé. Mi limiterò ad un esempio: i nichilisti affermano l’inesistenza della conoscenza laddove è assente l’oggetto e quindi fanno derivare da questo la conoscenza. Shankara replica che anche la non-esistenza che essi affermano come eterna e conoscibile, dato che in un qualche modo la definiscono, è oggetto di conoscenza, «[...] poiché la non-esistenza di tale [conoscenza] è essenzialmente [il contenuto di] una conoscenza [venendo conosciuta come oggetto]».[40] Ne consegue che l’asserzione della non-esistenza della conoscenza è affatto priva di significato.[41]
E a chi interpreta alla lettera la collocazione del Purusha all’interno del corpo, «[...] come un frutto di jujuba posto in una ciotola»,[42] Shankara risponde: «[...] una dichiarazione scritturale non potrà mai rovesciare qualsivoglia concezione [già acquisita dalle Scritture e corroborata dal senso comune]. [...] Perciò l’espressione “all’interno del corpo” (antahsharire) deve intendersi nel medesimo senso in cui si è stabilito che “lo spazio esiste all’interno dell’Uovo Cosmico”, in quanto [tali espressioni] si conformano alla comune esperienza».[43] In realtà il Purusha, che è causa dello spazio, come potrebbe essere delimitato dal corpo?
A questo punto la Prashna Upanishad enuncia il processo di emanazione-creazione delle “sedici parti” - il prana, la fede, lo spazio, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra, gli organi, la mente, il cibo, il vigore, l’ascesi, i mantra, i riti, i mondi e il nome di ogni essere - e di come esso sia preceduto da un atto di consapevolezza (cetana). Le “sedici parti” emanano dal Purusha e in esso si riassorbono alla rimozione della distinzione di nome e forma (nama-rupa).
«Come questi fiumi, i quali scorrono [verso il mare] avendo il mare come ultima dimora, allorché sono sfociati nel mare ivi cessano di essere venendo meno i loro nomi e forme, per cui vengono chiamati solo oceano, allo stesso modo queste sedici parti di questo Testimone onnipresente, che hanno il Purusha come ultima dimora, allorché vengono riassorbite nel Purusha ivi cessano di essere venendo meno i loro nomi e forme, per cui vengono chiamate solo Purusha. Colui [che così conosce] diviene privo di parti e immortale».[44]
L’Upanishad termina con la raccomandazione di realizzare Quello, «[...] affinché la morte non possa più affliggervi».[45] Pippalada dichiara di aver esposto tutto quello che conosce sul Brahman supremo, non trasceso da nulla.
I sei interroganti-discepoli gli rendono omaggio, prostrandosi ai suoi piedi ed offrendogli ghirlande: «Per noi sei tu, in verità, il nostro Padre, perché ci hai traghettato dall’ignoranza all’altra sponda. Sia reso omaggio ai grandi Saggi!».[46] Il padre e la madre che hanno generato il corpo vanno indubbiamente venerati, ma infinitamente di più va venerato il Padre che «[...] ci ha traghettato, con la zattera della conoscenza, [...] dallo sconfinato, grande mare dell’ignoranza o della falsa conoscenza, infestato dalle voraci belve della nascita, dell’invecchiamento e della morte, della malattia e di ogni sofferenza, all’altra sponda denominata liberazione, dalla quale non vi è ritorno [...]».[47] Il Padre corrisponde qui al Guru che etimologicamente rimanda al concetto di disperdere (ru) l’oscurità (gu).
Desidero concludere con una riflessione del Gruppo Kevala, inclusa nell’Introduzione al Pancikaraªa (La Quintuplicazione) di Shri Shankaracarya, che chiarisce l’atteggiamento con il quale si dovrebbe affrontare lo studio della presente Upanishad e, più in generale, di qualsiasi testo sacro: «Come tutti i testi appartenenti alla Tradizione, anche questo è rivolto all’intuizione coscienziale pura (buddhi) e non a quella ragione discorsiva (manas) che può costituire tutt’al più un temporaneo supporto per la prima, in attesa dell’instaurarsi di una piena e diretta consapevolezza della Realtà. Ciò esige un accostamento di natura esclusivamente coscienziale dettato cioè da una vera e propria istanza realizzativa, quindi dall’autentica aspirazione verso la totale emancipazione dai vincoli dell’esistenza relativo-samsarica».[48]  

Giuseppe Gorlani


[1] Glossario Sanscrito, Ediz. Asram Vidya, Roma ’88.
[2] Prasna Upanisad, I.2.
[3] «Essendo [Prajapati] l’Unità principiale, al di fuori della quale non vi è nulla di manifestato, la sua “ascesi” (tapas) consiste nella meditazione, sia perché non vi è un dualismo soggetto-oggetto su cui impostare il compimento della sadhana o di qualsiasi altro rituale, sia perché la stessa manifestazione è un’immensa proiezione mentale nella coscienza universale», nota n. 4, p. 48.
[4] Introduzione, p. 22.
[5] Sankara, Commento, p. 43.
[6] PrasnUp, I.11.
[7] PrasnUp, I.13.
[8] PrasnUp, I.15.
[9] Sankara, Commento, p. 53.
[10] Idem, p. 56.
[11] PrasnUp, II.11.
[12] Si veda in proposito la nota n. 2, p. 61.
[13] PrasnUp, III.1.
[14] PrasnUp, III.4.
[15] PrasnUp, III.10.
[16] PrasnUp, III.12.
[17] «Il senso [della domanda] è questo: tale [attività] è esplicata da un deva-principio identificato con l’effetto [cioè il corpo], oppure da uno identificato con lo strumento sensoriale [o con la mente]? », dal Commento di Sankara, p. 74.
[18] PrasnUp, IV.1.
[19] Sankara, Commento, p. 74.
[20] Idem, p. 75.
[21] Idem, cfr. p. 78.
[22] Idem, p. 84.
[23] Idem, p. 84.
[24] Idem, p. 84.
[25] PrasnUp, IV.7.
[26] PrasnUp, IV.9.
[27] PrasnUp, V.1.
[28] Sankara, p. 99.
[29] PrasnUp, V.5.
[30] PrasnUp, V.6.
[31] PrasnUp, V.6.
[32] Sankara, p. 105.
[33] PrasnUp, VI.1. Sankara commenta: «[...] chi afferma di sé il falso, cioè qualcosa di diverso da come è o in maniera differente da come si comporta [...] viene arso insieme con quella che è la sua origine, quindi privato di questo mondo e dell’altro; in altre parole viene distrutto», p. 116.
[34] PrasnUp, VI.1.
[35] Sankara, p. 115.
[36] Idem, p. 115.
[37] PrasnUp VI.2.
[38] Sankara, p. 117.
[39] Idem, p. 117.
[40] Idem, p. 120.
[41] È sulla base di simili confutazioni che Sri Sankaracarya estromise - “con un abbraccio fraterno”, secondo un’espressione di Sarvepalli Radhakrishnan - l’eterodossia buddhista dall’India, dimostrando che dottrine come quella dell’anatman (del non sé) sono totalmente prive di fondamento. Chi, infatti, afferma che né il jiva (l’io soggettivo), né l’Atman, l’Io principiale, il Sé, identico al Brahman, esistono? Se il soggetto che afferma è nulla, che valore possono avere le sue parole? E in ogni caso, chi è?
[42] Idem, p. 123.
[43] Idem, p. 124.
[44] PrasnUp, VI.5.
[45] PrasnUp, VI.6.
[46] PrasnUp, VI.8.
[47] Sankara, p. 138.
[48] In Opere Minori, volume primo, Ediz. Asram Vidya, Roma, 1990.