Ventotto
anni or sono, esattamente all’indomani del 5 aprile 1984, l’orientalistica
italiana si ritrovò d’un tratto orfana di uno tra i suoi «figli» più illustri:
Giuseppe Tucci. A partire da allora, tanto tra gli «specialisti», quanto tra i
semplici «appassionati» dell’Oriente, sempre più acuta si è fatta la percezione
del vuoto, per molti versi incolmabile, lasciato da quella scomparsa; un vuoto
fortunatamente — e almeno in parte — compensato dal crescente interesse
venutosi a creare intorno alla biografia e alla produzione saggistica di Tucci,
l’una, come vedremo, non meno affascinante e significativa dell’altra.
A
differenza degli ottocenteschi «professoroni» alla Max Müller (quelli — tanto
per capirci — abilissimi nel comporre voluminosi trattati sui paesi più lontani
restandosene comodamente seduti in panciolle al chiuso di accoglienti biblioteche),
a differenza di questi, dicevamo, l’Oriente Tucci lo aveva — e ci si passi
l’espressione — «calpestato», a piedi o sul dorso di un cammello. Da buon
marchigiano, due cose — come disse un giorno di sé — aveva amate sopra tutte:
«la montagna, come i pastori, e il Sole, come Giuliano l’Apostata». Mai fu, pertanto,
quello che si chiamerebbe un «accademico sedentario», anche se avrebbe potuto,
volendolo, umiliare chicchessia con il solo sfoderare il suo sanscrito
impeccabile, il suo tibetano fluente, il suo giapponese da samurai; idiomi perfezionati nel corso di lunghi e ripetuti
soggiorni e andirivieni between East and
West, quando ancora ci si spostava a bordo di aristocratici piroscafi. No.
Tucci apparteneva, semmai, a quelle paste d’uomo — assai rare al giorno d’oggi
— che l’idea di una «tranquilla» carriera universitaria, fine a se stessa, avulsa
dalla vita reale, mai avrebbe potuto appagare fino in fondo. Viceversa, in lui
— come ha scritto l’indologo Maurizio Taddei, suo discepolo, in pagine di
commossa rievocazione — sempre «lo studio a tavolino si accompagnò alla conoscenza diretta dei luoghi e delle
genti: fin dal 1925 in India (...), dove conobbe Tagore e Gandhi, poi — dal
1929 al 1948 — otto volte nel Tibet e — dal 1950 al 1954 — sei volte nel Nepal.
Da queste spedizioni, imprese ammirevoli anche dal punto di vista fisico (...),
egli trasse lo spunto per opere di divulgazione che ebbero ampia e incisiva
diffusione non soltanto in Italia» («Giuseppe Tucci (1894-1984)», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli,
vol. 44, p. 702. Il corsivo è nostro).
Professore
nelle università di Shantiniketan e di Calcutta, Tucci era noto, tra gli
Indiani, per i suoi modi eccentrici, che, abbinati alle straordinarie doti personali,
ne fecero una «leggenda» vivente. Mircea Eliade, che nella terra del Dio Gange
lo aveva conosciuto e frequentato dappresso, ne parlava ammirato, non senza una
punta di comprensibile invidia, come di un uomo che, oltre a cavarsela
benissimo in «tutte le lingue», era «pure bello e seducente»: «Portava lo
smoking con rara eleganza, benché girasse sempre con un manoscritto nella tasca
posteriore (...). Non dormiva più di due o tre ore per notte. Si occupava a
quel tempo [1929; n.d.r] della
traduzione in sanscrito di alcuni testi di logica cinese. Camminava per la
stanza col testo cinese in mano, e traduceva ogni frase a voce alta. Quando non
riusciva ad azzeccare la parola esatta, lanciava contro la porta il pugnale con
cui giocava. I suoi domestici credevano che invocasse gli spiriti e lo
abbandonavano gli uni dopo gli altri (...). Le ampie finestre aperte sulla
campagna, la lampada accesa tutta la notte in una stanza dove i libri e i
manoscritti erano sparpagliati per terra e dentro alcune casse aperte o su
mensole ricoperte di polvere. Tucci si muoveva da un angolo all’altro, il
pugnale in una mano, il testo cinese nell’altra (...).
L’ultima
volta che lo incontrai è stato sulla nave che ci portava entrambi verso
l’Europa (...). Lo scorgevo talvolta nel salone di prima classe mentre leggeva
una commediola sanscrita e rideva fra sé, così che le inglesi si giravano
sussurrando in francese per non essere intese dal poveruomo: «C’est un peu fou
et très comique, n’est-ce pas?...». La notte passeggiavamo tutte e due in
coperta ed egli mi faceva l’analisi dei più oscuri sistemi filosofici indiani,
mi raccontava le biografie di lama morti
cinque secoli prima (...). Una volta, allorché mi si chiudevano le palpebre dal
sonno e gli davo la buonanotte, mi disse: «Non so che cos’ho, non riesco più a
dormire del tutto». Lo guardai negli occhi e lui distolse immediatamente lo
sguardo, lasciandolo riposare sull’oceano. Ebbi la sensazione di trovarmi di
fronte a un uomo che voleva sfuggire a qualcosa, confessare qualcosa di
straordinario, di terribile. Forse una solitudine impietrita come quell’oceano
che ci circondava» (M. Eliade, Diario
d’India, Torino 1995, pp. 62 e ss.).
UNO SGUARDO AD ORIENTE
Al
principiare degli anni Trenta, tornato che fu in patria, Tucci indirizzò tutti
i suoi sforzi alla realizzazione di un istituto di studi orientali, con cui
colmare i troppi e ingiustificabili ritardi accumulati dal nostro paese in
quello specifico campo. Nacque così, nel 1933, con il fondamentale aiuto — non
bisogna dimenticarlo — di Giovanni Gentile, l’IsMEO (Istituto Italiano per il
Medio ed Estremo Oriente). Tucci — con il geniale intuito di chi precorre i
tempi — volle e ottenne che a questa sua «creatura» venisse riconosciuta
libertà di movimento e un’assoluta autonomia dalle istituzioni accademiche già
esistenti, per le quali — in verità — non nutriva una grandissima considerazione.
Confessò anzi, più volte, di trovarsi a disagio nell’università italiana, che
gli appariva come una specie di «malconnesso rottame». Fu anche questa sua, mai
sopita, insofferenza per un sapere schiavo delle note a pie’ di pagina, che lo
spinsero a farsi guida e promotore di importanti spedizioni archeologiche, tra
cui quella che lo condusse, nel 1955, alla valle dello Swat, nelle impervie e
malnote regioni del Pakistan settentrionale. Le numerose «missioni» intraprese
per conto del governo italiano, confermarono ulteriormente Tucci nell’idea di
una sostanziale unità culturale del continente «euroasiatico», pur nella incontrovertibile
pluralità delle esperienze storiche, linguistiche e religiose: «Troppo spesso
si discorre di un’essenziale incomunicabilità dell’Oriente e dell’Occidente, di
irreparabili divergenze e contrasti; ma chi esamini a fondo la cultura
asiatica, a parte le naturali differenze e varietà e diverso modo di
considerare l’uomo e la vita e di esprimere nell’arte o nel pensiero le proprie
ansie ed aspettazioni, o nella filosofia e nelle religioni i propri problemi e
le proprie intuizioni, vi troverà tuttavia la rifrangenza variamente colorata
delle stesse cure e angosce e speranze che hanno agitato, tormentato e
illuminato il nostro cammino» (introduzione a AA.VV., Le civiltà dell’Oriente, Roma 1956).
Molti
sono i volumi usciti dalla penna di
Tucci «esploratore», e ognuno — naturalmente — meriterebbe una disamina
a parte. Ci limitiamo a ricordarne alcuni: Santi
e Briganti nel Tibeignoto (1937); A
Lhasa e Oltre (1950); Tra giunge e
pagode (1956). Nepal. Alla scoperta
dei Malla (1960). Pagine insuperabili di storia, di arte, di archeologia,
di antropologia dell’Asia, nelle quali, più che altrove, la «vena narrativa»
dell’autore scorre libera e felice. Lo sguardo di Tucci si posa, curioso, sulle colonne di un tempio, prende nota di
una lapide, oppure ci descrive la veste stracciata di un sadhu o monaco ambulante. Come per incanto, anche il più
insignificante dei dettagli si anima e rivela il senso arcano di un interrogativo
millenario.
Si
spense novantenne, in quel di S. Polo de’ Cavalieri, un turrito paesino non
molto distante da Roma, il cui paesaggio gli ricordava gli immortali altipiani
dell’Asia Centrale. Aveva viaggiato molto, troppo per non rendersi conto che
più ci si inoltra lungo sentieri nascosti e lontanissimi, alla ricerca di
qualcosa, più la sete di conoscere cresce e si dilata. Ogni scoperta risolve
domande e altre ne pone. Ma di questo Tucci mai si dolse, perché sapeva, meglio
di chiunque altro, che «dove c’è mistero l’uomo può imaginare e dove c’è
certezza solo disperare».
Raimondo di Pennaforte
CRESTOMAZIA TUCCIANA
Io ho sempre
considerato le credenze umane — quelle che i padri ci trasmettono con il sangue
e che troviamo quasi solidificate nelle opinioni comuni fino a che nuove idee,
insinuandovisi, non le sconvolgono — come una realtà invisibile, logicamente
indimostrabile eppure presente e viva assai più delle cose che si toccano con
mano: un’aura misteriosa che ci avvolge e nella quale ci muoviamo e che ad
andarci contro ci si sente quasi mozzare il fiato, come succede a chi corra
contro vento. Per la qual cosa, dovunque mi trovi, cerco sempre di mettermi in
sintonia con cotesta atmosfera spirituale che io sento nuova e diversa, ma che
mi investe e poi mi trascina. Anche adesso debbo dimenticarmi di essere un
europeo, abituato a giudicare tutto al lume della logica e a distillare
concetti con l’alambicco dell’intelletto; debbo quasi dissolvere la mia
personalità nel subconscio collettivo di questo popolo che mi ospita, come in
un mare tranquillo sul quale ancora non freme vento di opinioni nuove e
ribelli. Prima di mettermi in camino farò come fanno i Tibetani che, sul punto
di intraprendere un viaggio o, comunque, quando avvertono per misteriosi
suggerimenti la imminenza di forze ostili, ricorrono a una cerimonia
propiziatoria ed esorcistica che si chiama barcè
selvà «eliminazione degli ostacoli» (...).
Certi riti
non si capiscono con la descrizione che ne puoi leggere sui libri; bisogna vederli.
E poi, chissà? Io per natura ho sempre creduto più alle cose che non vedo che a
quelle di cui la scienza mi vuole far certo e che oggi sono in un modo e domani
in un altro. Togli all’uomo l’imprevisto ed il mistero ed il vivere si riduce a
un noioso transito di cibo.
(A Lhasa e oltre)
Altri fondava
imperi: gli italiani preferirono essere apostoli di cultura, fecero da ponte.
Ed è la nostra gloria. Non c’è opera fondata sull’azione che non invecchi, si
dissolva, si schianti; gli imperi crescono e si dilatano con una logica fatale
e capricciosa in una potenza che come un fuoco d’artificio sale, s’espande in
lucente girandola, scintilla in un ardore di vita e di morte per spegnersi
sollecita nel buoi del nulla: e di sè lascia soltanto faville di rancori e di
odi. Invece la rivelazione dell’arte, la collaborazione nel pensiero, il
generoso rispetto per le infinite modulazioni della mente e dello spirito sono
dono e ricchezza che il tempo non logora. Lo vedete. Oggi la parentesi che
condusse l’Occidente a dominare sull’Oriente è conclusa. L’Asia si è redenta:
questa è la realtà irrevocabile alla quale è stolto o vano chiudere gli occhi
(...).
Rispetto ai
tempi di Marco Polo, più sottili ma non per questo più cedevoli incomprensioni,
prevenzioni, impressioni od incompatibilità gettano un’ombra cieca sulla
prossimità fra l’Asia e l’Europa che il mondo, rimpicciolito dalla tecnica, ha
reso quasi coabitazione; e per causa di quel fraintendimento la prossimità
fisica non diventa spirituale. L’opera che Marco annuncia non è dunque ancora
compiuta. Egli splende della grandezza eterna dei simboli, pioniere, allora ed
oggi, di una comunione fiduciosa fra due culture antichissime; e guida perché
queste, congiungendosi, nella fratellanza che è privilegio delle cose dello
spirito, cooperino per il comune bene a nuove armonie di pensieri e di imagini,
sola illusione d’eternità che galleggia sulla insaziata voracità del
tempo.
(Marco Polo)
La storia
della religione indiana può definirsi un faticoso tendere alla conquista della
autocoscienza; e, naturalmente, quel che si dice della religione, si deve
ripetere della filosofia, com’è da attendersi in un paese dove religione e
filosofia restarono fuse nell’unità di una visione (darçana) che serve ad una esperienza (sadhana). In India l’intelletto non ha mai così prevalso da
sovrapporsi alle facoltà dell’anima e distaccarsene in modo da provocare la
pericolosa scissione tra sè medesimo e la psiche, che è malattia di cui soffre
l’occidente (...). L’intelletto
puro, distaccato dall’animo, è la morte dell’uomo; l’intelletto, troppo presumendo
di sè ed isolandosi in una boriosa compiacenza, invece di nobilitare l’uomo lo
umilia e lo spersonifica: uccide quella amorosa partecipazione alla vita delle
cose e delle creature di cui l’anima è capace con le sue emozioni ed
intuizioni; l’intelletto per sè solo è cosa morta ed assassina, un principio di
disintegrazione. In India invece l’intelletto non si è mai dissociato
dall’anima, di maniera che il mondo del subconscio non fu mai negato e respinto
ma convogliato e trasfigurato in un processo armonioso inteso a riconquistare
la autocoscienza: coscienza di un io che non è, naturalmente, l’io singolo, ma
l’Io, la coscienza cosmica da cui tutto deriva e a cui tutto si riconduce.
(Teoria e pratica del mandala)
Campagne di
scavo, viaggi di esplorazione e simili ricerche, intraprese con più vasto raggio
e con maggiore impegno, dovrebbero continuare l’antica nostra tradizione
umanistica, ardente e disinteressata, che fu ponte spirituale tra Oriente e
Occidente e a poco a poco far cadere l’illusione che il sole splendesse soltanto
in Europa e quivi unicamente l’uomo fosse privilegiata creatura nella quale, in
perfetto e quasi divino equilibrio, l’imaginazione si congiunge alla
sottigliezza logica ed il fuoco dell’estasi mistica viene mitigato da una spensierata
bramosia di vita. In questo puntiglioso periodo nel quale viviamo, quando
l’ingegno sembra tutto intento a scoprire, definire, inasprire le native necessarie
diversità tra le opinioni ed i popoli, occorrerebbe più che mai secondare
codeste imprese. Esse infatti accrescono prestigio al paese che le compie ed insieme
rendono omaggio alla cultura d’altre stirpi, nell’abbraccio sereno della
cultura ritrovando, sotto ogni cielo, quella medesima nostra umanità che tanto
odia ed invece dovrebbe tanto compatire: perché dovunque e dappertutto, come
ammonisce un filosofo indiano, risuona la medesima domanda senza risposta: «si
ottengano pure ricchezze tali che soddisfino ogni desiderio, e poi? si ponga
pure il piede sul collo del nemico, e poi? si colmino pure di agi e di onori
tutti quelli che ci sono devoti, e poi? ci sia pur concesso di vivere mille anni,
e poi?».
(Tra giungle e pagode)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
TUCCIANA
Scritti di Mencio. Lanciano, Carabba 1921.
Storia della filosofia
cinese antica.
Bologna, Zanichelli 1922.
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Indo-Tibetica I. Roma, Reale Accademia
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Indo-Tibetica II. Roma, Reale Accademia
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Indo-Tibetica III. Roma, Reale Accademia
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Indo-Tibetica III (parte
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Roma, Reale Accademia d’Italia 1936.
Santi e briganti nel
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Milano-Messina, Principato 1940.
Indo-Tibetica IV. Roma, Reale Accademia
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Teoria e pratica del
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Tra giungle e pagode. Roma, Libreria dello Stato
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Tibet, Ginevra, Nagel 1973.
* Per
un elenco bibliografico esaustivo, vedasi: Luciano Petech e Fabio Scialpi, «The
Works of Giuseppe Tucci», in East and
West, vol. XXXIV, nn. 1-3 (settembre 1984), pp. 23-42. Ulteriori approfondimenti sul significato
dell’opera tucciana, li si potrà ricavare dalla lettura del volume miscellaneo Giuseppe Tucci nel centenario della nascita,
Roma, IsMEO 1995, a cura di Beniamino Melasecchi.