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martedì 14 febbraio 2012

Guido De Giorgio tra Oriente e Occidente




Pensatore “metafisico” e rigorosamente “inattuale”, sulle orme di Guénon, di cui fu amico e discepolo, propugnò la via di un’ascesi “eroica”, improntata ai canoni olimpici della “romanità”. Autore di opere dove un cattolicesimo “integrale”, dai toni mistici e ispirati, si salda a suggestioni liriche di stampo sufico, imputava all’Occidente di essersi fatto risucchiare nella palude del più crasso materialismo ateo. Alla mentalità profana e “orizzontale” tipica del mondo moderno, contrappose i princìpi “verticali” e “trascendenti” della “Tradizione Perenne”, interpretata alla luce della sua equazione personale.

  
Esiste — nel formicolante e babelico universo della cultura italiana del ‘900 — una «terra di mezzo» dove, sepolti sotto spesse patine di polvere, giacciono nomi su cui aleggia una cappa di silenzio troppo assordante per non dare adito a sospetti. Sbiaditi dagherrotipi che rischiano, alla lunga, di sprofondare irrimediabilmente nella più plateale e amorfa indifferenza. Voci scomode e «ingombranti», che aspettano — invano — di essere estratte dal «limbo» nel quale le si è volute arbitrariamente relegare, in ossequio a un presunto (e pretestuoso) «anacronismo». Idee impervie, libri ardui e spinosi, su cui incombe ancor oggi minacciosa, brandita da chi teme che il dogma del «Pensiero Unico» ne esca intaccato, la scure della damnatio memoriae e della strumentale, nonché sistematica, sottovalutazione.
Tra le vittime più illustri di questa strisciante «amnesia» collettiva, che pare destinata a propagarsi (e a perpetuarsi) al di là delle previsioni meno rosee, vi è Guido De Giorgio, nato a San Lupo (in provincia di Benevento) nel 1890 e scomparso nel 1957 nei pressi di Mondovì (nel cuneese). Una figura, questa, pure tra le più esemplari e significative di quella corrente di pensiero che, più o meno impropriamente, è stata spesso definita ora «tradizionalista», ora «spiritualista»; corrente che trovò, all’interno del fascismo, una sua —  per molti problematica e faticosa — collocazione.

Da una torre d'avorio
Cattolico islamizzante, amico e stretto collaboratore di Julius Evola e di René Guénon, scrittore dalla vena metafisica, alpinista esoterico, Guido De Giorgio è uno di quei personaggi che non si prestano a tiepidi approcci, che non lasciano spazio alle mezze misure, alle cautele ermeneutiche di rito. Uno di quegli autori, come ce ne sono pochi, al cui cospetto ci si sente immediatamente attratti (o respinti), sull’onda di un misterioso e viscerale «impulso» esulante per sua natura dalla sfera delle fredde elucubrazioni intellettualistiche. Autori che ci piace serbare nei più riposti scaffali dell’anima, perché non cadano preda di sguardi profani e profanatori, oggetto di volgari e insolenti appropriazioni indebite. Autori che si contano sulle dita di una mano e con i quali, pagina dopo pagina, riga dopo riga, si finisce inconsapevolmente per instaurare una sorta di aristocratico «colloquio», frutto di una dantesca «corrispondenza d’amorosi sensi», difficile a spiegarsi in termini meramente razionali.  Come difficile, d’altronde, è accostarsi alla personalità ombrosa e «inattuale» — il che rappresenta per noi, beninteso, una nota di merito — di Guido De Giorgio, per meglio lumeggiare la quale occorre rifarsi, in primo luogo, alle due opere principali uscite dalle penna di quest’ultimo, ambedue — per una serie di circostanze che non possono che considerarsi «emblematiche» — pubblicate postume, a molti anni di distanza dalla morte: La Tradizione Romana (1973) e Dio e il Poeta (1985). Testi, quelli di De Giorgio, che, per certi aspetti, si inseriscono e collocano il nostro nell’alveo di un più vasto e generale orientamento speculativo, che va sotto la voce di «letteratura della crisi» e che tanta parte ha avuto nel panorama filosofico e intellettuale del XX secolo, specie nel periodo che si situa tra i due grandi conflitti mondiali. Fu allora che uomini e pensatori dalla diversa estrazione culturale e dalla diversa sensibilità religiosa come Benda e Bernanos, come Spengler e Ortega y Gasset, come i già citati Evola e Guénon, cominciarono a interrogarsi, con esiti il più  delle volte sorprendentemente convergenti, sulla «decadenza» cui il mondo moderno era andato, ai loro occhi, via via condannandosi. Decadenza innanzitutto etica e spirituale.




Ne La Tradizione Romana, De Giorgio traccia una diagnosi — a dir poco impietosa —  delle innumerevoli «degenerazioni» e «aberrazioni» scientiste, che cospirano affinché nel tipo umano occidentale degli ultimi tempi ogni residuo anelito alla trascendenza venga tarpato, soffocato. Tra i «sintomi» più vistosi di questa deriva atea e materialista, cui la nostra civiltà sembra essersi caninamente rassegnata, De Giorgio ravvisa la progressiva dimenticanza della funzione «centripeta» e «unificatrice» di Roma: «L’Europa non ha fissità perché non ha tradizione: perdendo di vista il vero “dinamismo” [...], si è lasciata sommergere da un fremito tetanico di permanente mobilità [...]. In realtà tutto ciò è delirio infantile dovuto a un progressivo abbassamento del livello intellettuale che, come assoggetta lo spirito alla materia, così opprime l’uomo con la macchina».
«Il punto di vista di questo saggio è assoluto, cioè metafisico, sacro, tradizionale: questi tre termini sono per noi identici perché convergono nella determinazione di un medesimo dominio, quello delle verità trascendenti che costituisce lo scopo supremo dell’uomo, che noi consideriamo tradizionalmente di origine divina e di destinazione divina purché egli voglia e sappia conquistare ciò che volontariamente ha perduto, la sua vera potenza, la sua più alta dignità, di essere la creatura prediletta dal Signore ritornando alla Tradizione Sacra». «Non proponiamo quindi — continua — una nuova filosofia, una nuova arte, una nuova vita, ciò che avrebbe un ben scarso interesse in questa fucina di novità clamorosamente vuote e artificiali che è l’Europa moderna, anzi rifuggiamo assolutamente da ciò che dicesi comunemente “originale”, “personale” [...]. Noi proponiamo ciò che è più vecchio del mondo, il ritorno allo spirito tradizionale [...]. Questo ritorno significa per noi coscienza dell’ordine divino, riassetto di una società tradizionale secondo il Regnum e l’Imperium, l’autorità spirituale e il potere temporale armonicamente sviluppantisi nello stesso ambito tradizionale».


Orizzonti metafisici 
 Una concezione rigorosamente sacra del mondo e della vita domina, dunque, e l’opera e il pensiero di Guido De Giorgio. Non c’è occasione nella quale egli non ribadisca — con stile martellante che ci riporta alle invettive del miglior Nietzsche — la sua più radicale e sanguigna idiosincrasia nei confronti dei «lugubri surrogati» di certo sedicente filosofare contemporaneo, «sistematicamente imbecille», il quale si contrappone, con «presuntuosa pienezza», alla «divina follia delle Religioni». Là dove folle e proterva e prometeica è, invece, l’illusione, anche questa tutta moderna, che il mondo si regga da sé e che l’uomo, «splendida inconsistenza transeunte, maschera mobile su cui dilaga il mare del divenire», possa fare a meno di Dio. Di quell’Ente Supremo che «s’immilla rimanendo uno», che «si dà perché Gli sia dato», che «si offre perché Gli sia offerto». «Ogni forma tradizionale è quindi strettamente ortodossa e la sua norma è inassociabile a quella di altre tradizioni perché in tal caso si giungerebbe ad un assurdo, la confusione dei punti di partenza, l’immistione delle vie realizzatrici, l’impossibilità di seguire un processo definitivo e risolutivo: ogni tentativo di tal fgenere è condannato alla sterilità perché proviene da un’unione mostruosa. Quindi si condanna da sé ogni forma di sincretismo [...]. È consigliabile perciò ed è prudente che gli uomini, per il destino delle loro anime, aderiscano alla tradizione a cui appartengono senza condannare — ciò che sarebbe assurdo — e senza occuparsi delle altre forme tradizionali per interpretarle erroneamente e cercare di confonderle con la propria».




In Dio e il Poeta — opera postuma — De Giorgio descrive, con toni lirici e accorati,  il «precipitato» della sua incandescente esperienza interiore, prodotto di una forsennata e a tratti «eroica» autodisciplina ascetica degna di uno yogi. Libro, questo, che — come è stato giustamente osservato — testimonia, in modo commovente e originale, di «uno sforzo a vibrare all’unisono» con quell’insieme di note ineffabili di cui è costellato il sentiero di chi abdica a tutto se stesso ritrovarsi in Dio. Qui, il  lato «attivo», più squisitamente «realizzativo», di Guido De Giorgio prende il sopravvento su quello «contemplativo». Corda tesa tra l’«Io» e l’«Universo», l’anima si getta nella fornace ardente del «Mistero Divino» e ne esce come trasfigurata, come «imparadisata». Il dialogo tra «Dio» e il «Poeta» non è — infatti — che un continuo susseguirsi e accavallarsi di illuminazioni subitanee e folgoranti dal sapore cosmico-monistico come questa: «Sapere che tutto, dal verme alla stella, converge in Lui, che tutto, in noi, in profondo come in superficie, è Lui, che Lui è in tutto e tutto in Lui, che l’universalità degli esseri, delle cose, dei fatti, delle azioni apparentemente contrarie, apparentemente consone alla Sua legge, è Lui, che virtù, peccato, bene, male, è Lui, che nulla può sottrarsi alla fatalità tremenda della Sua Presenza, che dall’inizio alla fine è sempre Lui...».
E ancora: «La Scienza Sacra guarda il mondo in Dio e vede circolare dominicalmente Dio nel mondo onde tutto si dematerializza e s’incanta nell’onda vivificante della Pace. Male e bene, bello e brutto, Dio e non-Dio, tutto è Dio, perché il mondo senza Dio è un otre vuoto gonfio di vento, vanità del pieno precario, inadeguazione, insufficienza, morte [...]. Ogni cosa, ogni essere, nell’ambito del sacro, diventa grado della scala dell’infinito, è indice i potenza perché espressione d’amore. Com’è detto nella tradizione islamica, Egli era un tesoro nascosto, volle essere conosciuto e fece balenare da Sé la creazione, affinché fosse il cento dell’Amore Universale, affinché tutto ciò che appare facesse capo a Ciò che solo è e il sogno cosmico fosse fissato, radicato in Lui».

 Zero
Dopo essersi laureatosi in filosofia con una tesi di argomento orientalistico, De Giorgio, il cui padre svolgeva la professione di notaio, si trasferì in Tunisia, per insegnare italiano. Colà, entrerà ben presto in contatto con lo sheykh tunisino Mohammed Khayreddine, qualificato esponente di una delle più antiche confraternite locali. Probabile, vista la tutt’altro che superficiale conoscenza che sembra potersi evincere dagli scritti di de Giorgio di un certo sufismo di ceppo «monista», e della terminologia mistica araba, che quegli lo abbia «iniziato» all’esoterismo islamico.
All’indomani della prima guerra mondiale, De Giorgio è a Parigi. Nella capitale francese, città «magica» per eccellenza, stringe amicizia con René Guénon, da cui mutuerà in prima persona un orientamento venato da forti suggestioni di marca «induizzante». Tra i due nasce un intenso rapporto epistolare e di collaborazione, che offre, tra l’altro, a De Giorgio l’opportunità di comparire, sotto lo pseudonimo di «Zero», sulle colonne dei due più prestigiosi mensili francesi di studi iniziatici: Le Voile d’Isis e L’Initiation.
Gli anni ’20, segnati dal definitivo ritorno in Italia, coincidono per il De Giorgio con la partecipazione all’avventura dell’evoliano «Gruppo di Ur», alla cui omonima rivista (1927-28) egli reca contributi di grande spessore (basti pensare al saggio su «L’attimo e l’eterno», firmato «Havismat»), non senza esercitare contestualmente una certa influenza «rettificatrice» sullo stesso Evola, le cui tesi esasperatamente anti-cristiane e imperialistico-pagane non lo trovavano d’accordo. Nella sua autobiografia Il cammino del cinabro (I ed. Milano, Scheiwiller, 1963), Evola, comunque, non esiterà a riconoscere il debito contratto verso colui che avrà a definire come «una specie di iniziato allo stato selvaggio e caotico [...]». Havismat, alias De Giorgio, ricorda ancora Evola, «possedeva una cultura eccezionale, conosceva molte lingue, ma aveva un temperamento quanto mai instabile [...]. La sua insofferenza pel mondo moderno era tale, che egli si era ritirato fra i monti, da lui sentiti come il suo ambiente naturale e, in ultimo, in una canonica abbandonata vivendo quasi di nulla [...]. La sua influenza su me [...] ebbe relazione col suo drammatizzare e energizzare il concetto della Tradizione, che nel Guénon, a causa della di lui equazione personale, presentava tratti troppo formali e intellettuali...». 
Il connubio Evola-De Giorgio si cementò ulteriormente in concomitanza con l’uscita de La Torre (1930); significativo, ancorché effimero, tentativo giornalistico di stampo «super-fascista», di cui il De Giorgio sarebbe stato «uno degli ispiratori», se non «l’animatore invisibile». Nelle intenzioni di quest’ultimo, tanto i lettori quanto i collaboratori de La Torre, preso atto del ruolo positivo svolto dal fascismo in quanto movimento politico avverso alle forze telluriche della sovversione internazionale, avrebbero dovuto sforzarsi di agire per vie sottili affinché il regime si «universalizzasse», ricollegandosi a quella «norma assoluta il cui valore — come De Giorgio sottolineava in un suo editoriale dal titolo Mercuriales Viri — è nell’inesauribilità stessa del sua ambito sacro». «Noi — proseguiva in un crescendo di accenti — insorgiamo contro lo pseudo fascismo di coloro che vogliono amputare, mutilare la Romanità», onde ridurre questa a una mera «regola esterna di vita limitata all’hic et nunc della contingenza storica, una specie di politica di reazione; una forma mentis provvisoria, un habitus, impegnativo in sede di opportunistica aderenza».

Dall’istante all’Eternità...
Incapperebbe tuttavia in un errore a dir poco marchiano chi, spinto da buona o malafede, volesse ingabbiare, incapsulare nella facile e sbrigativa etichetta di «fascisti», gli ideali metapolitici, al di là della loro condivisibilità, di Guido De Giorgio; ideali troppo atipici e a sé stanti perché li si possa — oggi come oggi — esorcizzare  con formulette precotte, improntati, come si è cercato di dimostrare, a una lettura  essenzialmente metastorica e mito-poietica della «romanità». La quale per De Giorgio, si configura piuttosto, a nostro avviso, come un fenomeno archetipo a cui tendere nella prospettiva di una ipotetica «restaurazione dello spirito tradizionale». Vero è che egli parlerà, a più riprese, di un «Fascismo Sacro», come anche dell’opportunità di propiziare la «fascificazione dell’Europa e il mondo»; espressioni dettate da un temperamento «visionario» e, certo, suscettibili di indurre a malintesi, ma che davvero, nell’ottica degiorgiana, non hanno alcunché da spartire, se non alla lontana, con l’esperimento del Ventennio. Prova ne sia il fatto che De Giorgio addita nel contenuto occulto della Divina Commedia il modello più eccelso e perfetto di «Fascismo»!
Da questo punto di vista, avulso dalle dalle superficiali e retoriche travisazioni marionettistiche della romanità tipiche del regime mussoliniano, la «Città Eterna» assurge, per De Giorgio, nientemeno che al rango di vero e proprio «polo magnetico e spirituale», di «qibla dell’Occidente». Roma è tale perché in essa — e non altrove — il mondo classico e il mondo cristiano, il fuoco di Vesta e il legno della Croce, il Fascio etrusco e il mistico Tau, si sono fusi fino a compenetrarsi in una più elevata «sintesi», per mezzo della quale il cristianesimo si è fatto «romano», cioè «universale», in conformità a quanto virtualmente adombrato nell’immagine «bifronte» del Dio Giano.


Verso il crepuscolo
L’ultimo scorcio della sua esistenza, De Giorgio lo trascorse — per quel che se ne sa — all’insegna di un ripiegamento scettico e amaro. Forse un modo, questo, per sentirsi parte integrante di quel «Sacerdozio di asceti solitari», cui — in ogni tempo e luogo — spetta il compito, ingrato e gravoso, di combattere, armi in pugno, la «grande guerra santa». Tristi vicende personali, tra le quali la morte del figlio Havis, medaglia d’oro al valor militare, immolatosi al Passo Uarieu, lo indussero alla drastica scelta di estraniarsi — una volta per tutte — dalla «vanità», dalla «amorfia» che vedeva ribollire intorno a sé, dagli «irreali menadici — come un giorno li aveva chiamati — che si agitano monotonamente col formicolio cadaverico dei vermi». Non gli restava che qualche vetta su inerpicarsi a dorso nudo e la fede tetragona degli avi, a cui si aggrappò come lo scalatore che si tiene alla roccia più salda per non cadere a precipizio nel vuoto che inghiotte.
Poche notizie biografiche, raccolte qua e là, ce lo descrivono stanco, perseguitato dalla nomea di «stravagante», e per di più versante in gravi condizioni economiche e morali. Da una sua straziante lettera del 1954: «[...] Qui, in questa vecchia canonica che un giorno o l’altro ci cadrà in testa, c’è praticamente il caos, un ammasso, un accumularsi d’oggetti  più disparati [...]. Infine l’inverno, il grande inverno è passato e noi siamo ancora in piedi [...]. Non posso dirvi tutto quello che mi succede, queste brutte cose [...]. È una specie di persecuzione contro di me...».
Un po’ di conforto gli venne dall’incontro con un rude frate cappuccino in odor di santità e dalle mani piagate: Padre Pio da Pietrelcina. Al quale rese una memorabile visita, successivamente descritta in Ciò che mormora il vento del Gargano...; toccante opuscolo dove De Giorgio rievoca le circostanze del suo pellegrinaggio al convento di S. Giovanni Rotondo. «Il volo di Padre Pio oggi è più alto di quello di ieri: la sua messa dura esattamente due ore. Egli solo sull’altare celebra. Siamo a due teste da lui e seguiamo il filo dell’onda che si flette, pullula, s’apre e va. L’inno di umiliazione, per lui, per tutti noi, tutti i morti, per tutti i vivi, in assunzione integrativa, è mormorato in chiarità di spirito che accoglie tutte le anime, quello che in esse è visibile, e soprattutto quello che in esse non è visibile [...]. Toccato il fondo, il corpo si eleva, le mani si stendono, gli occhi si sublimano, un’ala candidissima capta il soffio di Dio e lo inonda sugli oblata quando mormora Veni Sanctificator omnipotens aeterne Deus... mentre la povera santa man traccia la croce della santificazione nel nome di Chi solo ha un nome degno di essere nominato».
Imboccò, così, all’ombra delle Alpi, l’impervio sentiero che porta al tramonto. Ci piace pensare che egli abbia, alla fine, raggiunto quella rupe oltre la quale lo sguardo si perde, nel silenzio, tra le nubi...

Angelo Iacovella


Bibliografia

La Tradizione Romana, Milano, Flamen 1973.
Dio e il Poeta, Rescaldina (MI), La Queste 1985.
L’instant et l’éternité, et autres textes sur la Tradition, Milano, Archè 1987.
Ciò che mormora il vento del Gargano, Milano, Archè 1999.
Aforismi e Poesie, Milano, Archè 1999.
Prospettive della Tradizione [raccolta degli articoli pubblicati su «Diorama Filosofico»], Catania, Il Cinabro 1999.


Studi su G.D.G.

Pietro Di Vona, Evola, Guénon, De Giorgio, Scanziano (RE), Sear 1993.
Philippe Baillet, Guido De Giorgio, in «Politica Hermetica», n. 1 (1987).
Renato Del Ponte, Evola e il magico “Gruppo di Ur”, Bozano, Sear 1994, spec. le pp. 50-51.