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sabato 11 febbraio 2012

Oltre il samsara

Prashna Upanishad – con il commento di Shankara, Edizioni Asram Vidya, Roma 2004. 


La Prashna Upanishad è una delle tredici Upanishad principali: appartiene al periodo delle Upanishad medie (post-vedico, ma pre-buddhista), è inscritta nel corpus del quarto Veda, l’Atharva-veda (relativo alla conoscenza di parole o suoni di potere, mantra, e quindi di contenuto eminentemente operativo, e riservato agli atharvan, i “sacerdoti del fuoco”), ed è ritenuta complementare alla Mundaka, della quale costituisce un Brahmana, cioè una sezione esegetica.
L’interpretazione dell’etimologia del termine upanishad è incerta, ma in ogni caso essa rimanda all’idea di sedersi vicino a un Maestro per ricevere istruzioni segrete o, meglio, l’Insegnamento ultimo, attinente alla Conoscenza Suprema (Paravidya). Le Upanishad costituiscono la parte finale della Shruti (la Tradizione direttamente rivelata) e la base su cui si fonda il Vedanta: l’essenza, il fine, il compimento dei Veda. Esse sono riservate ai sannyasin, ovvero a coloro i quali hanno rinunciato a perseguire qualsiasi mèta che non sia la Conoscenza di Sé. La rinuncia, sannyasa, costituisce nominalmente il quarto stadio della vita umana, al quale si dovrebbe accedere con la vecchiaia, ma in realtà esso si pone «al di là degli stadi di vita e degli ordini sociali» ed è «la condizione necessaria per intraprendere lo studio dei Testi Sacri, ricevere l’iniziazione (diksha) e l’istruzione (upadesha) da parte di un Guru qualificato».[1]
Prashna significa “domanda, quesito” e dunque quest’opera è l’“Upanishad delle domande”. I primi tre prashna ineriscono la conoscenza non-suprema; gli altri tre, la conoscenza suprema. Alcuni saggi, che hanno realizzato il Brahman saguna (con attributi, non-supremo), ma che aspirano alla conoscenza del Brahman supremo, si recano dal rishi Pippalada, portando nelle mani delle fascine di legna per il fuoco sacrificale, con l’intento di rivolgergli alcune domande. Prima però che essi possano formulare i loro quesiti, Pippalada (lett.: “colui che si nutre del fico selvatico”) li invita a soggiornare presso di lui per un anno, «praticando l’ascesi, il brahmacarya e la fede».[2] La pratica del brahmacarya è ritenuta fondamentale per accostarsi alla Scienza sacra; questo termine significa “continenza, padronanza completa dei sensi, castità”. Essa viene richiesta non tanto per motivi morali, quanto funzionali: è indispensabile una concentrazione totale e la mobilitazione di tutte le proprie risorse fisiche, energetiche, mentali e intuitive, per dedicarsi al risveglio della pura consapevolezza. Per “fede” si intende la più completa fiducia nel Maestro.
Nel “Primo Quesito”, Kabandhi Katyayana interroga Pippalada circa l’origine di tutte le creature. Il rishi risponde che Prajapati, personificazione dell’Essere universale, l’Unità qualificata (vishesha), anelando a una progenie, si immerge in meditazione e, manifestatosi come Hiranyagarbha (l’Uovo cosmico), proietta progressivamente, per mezzo della forza del fuoco ascetico,[3] la coppia-diade principiale (dvandva) formata da prana e rayi, il divoratore e il cibo, simbolicamente identificati con il Sole e la Luna. Non si tratta, tuttavia, come acutamente nota il Gruppo Kevala nell’Introduzione, di princìpi contrapposti, bensì di «gradi successivi», ovvero la Luna è compresa nel Sole, il quale è Vaishvanara, totalità del mondo formale e non-formale, Vishvarupa, Colui che si manifesta in ogni forma, e Agni, «il principio Fuoco che tutto consuma trasforma e riassorbe».[4] L’iter di reintegrazione è il seguente: il nutrimento-denso (adyam), dispensato dalla Luna, viene assorbito dal divoratore-sottile (atta), il Sole, e questo da Prajapati, ma sia il primo che il secondo costituiscono alimento per l’Unità causale da cui promanano.
Prajapati è anche il Tempo (kala), ossia l’Anno (samvatsara), con i suoi due corsi, meridionale e settentrionale. I saggi che aspirano ad una discendenza imboccano quello meridionale (dakshinayana) o via degli Antenati (pitriyana). Esso consiste nel compiere sacrifici, rituali, atti meritori e caritatevoli in conseguenza dei quali, dopo la morte, si raggiunge il mondo della Luna (candraloka), da dove, esauriti i buoni frutti maturati, si ritorna nella condizione umana. Coloro i quali, invece, imboccano il corso settentrionale (uttarayana) o via degli Dei (devayana), raggiungono il mondo del Sole (adityaloka) o mondo del Brahman (brahmaloka), dal quale non c’è ritorno. Percorrono questa via quelli che trasmutano i riti in meditazione, trascendendo l’individualità e identificandosi in Prajapati, il Sé di tutto, libero dal calare e dal crescere, immutabile, esente da paura. Essa è preclusa ai non-conoscitori, poiché: «[...] coloro che sono immersi nell’ignoranza sono bloccati dal sole [...]».[5]
Del Sole, il sutra 11 afferma che possiede cinque piedi (stagioni), che ha dodici forme (mesi), che è «ricolmo d’acqua»,[6] dato che attiva la formazione delle nubi e la produzione di pioggia, e che in esso è fissato tutto l’universo.
Prajapati è il Mese, con la sua quindicina oscura, coincidente con rayi, e quella chiara, con il prana. I conoscitori del prana celebrano il sacrificio nella quindicina chiara, quelli che sono caratterizzati da una visione offuscata, nella quindicina oscura.
Prajapati è il Giorno, il prana, e la Notte, rayi. Quelli che si uniscono durante il giorno disperdono il prana, quelli che invece avvicinano la propria moglie durante la notte «[...] è proprio come se osservassero il brahmacarya».[7]
Prajapati è, infine, il cibo, dal quale proviene il seme, da cui procedono le creature. «[...] coloro i quali compiono il voto di Prajapati ottengono una coppia».[8] E cioè, i capofamiglia che compiono sacrifici, atti meritori, offerte e che si uniscono con la propria moglie nel tempo opportuno, ottengono un figlio e una figlia.
Nel “Secondo Quesito”, Vaidarbhi Bhargava, chiede al Maestro quante siano le forme divine (deva) che sostengono la creatura vivente, quali, tra loro, risplendano «[...] del fulgore della propria grandezza»[9] e quale sia la più importante. Pippalada risponde che le forme divine che sostengono il veicolo corporeo sono: lo spazio (akasha), l’aria (vayu), il fuoco (agni), l’acqua (apah), la terra (prithivi), ovvero i cinque elementi (mahabhutani) costituenti il corpo fisico; e la parola (vac), la mente (manah), l’occhio (cakshuh) e l’orecchio (shrotram), ovvero gli organi di azione e quelli di percezione. Tutti questi deva sono però sorretti dal prana principale, il quale si suddivide in essi.
Il prana è il sole, è Maghavan (Indra, il protettore, che distrugge i demoni), Rudra, la nube, il cibo, l’esistente (il denso) e il non esistente (il sottile, che non ha forma percepibile) e il nettare d’immortalità, «[...] cioè il mezzo di sostentamento per gli Dei».[10] Tutto è fondato nel prana: le tre specie di mantra (ric, yajus e sama), il sacrificio (yajna), gli ordini degli kshatriya e dei brahmana. Il prana è Prajapati stesso, colui che si muove nell’embrione come seme e come feto e nasce a somiglianza dei genitori; egli è il messaggero delle offerte agli Dei, la prima oblazione per gli Antenati, la retta condotta, il Sé onnipervadente, al quale tutti gli esseri viventi recano offerta, e il fruitore supremo (bhoktri), rispetto al quale tutto è oggetto di fruizione (bhojyam). «Tu sei colui che non deve essere purificato! O prana, sei l’unico Rishi, il Divoratore, il Signore della totalità. Noi siamo i datori del [tuo] cibo. Noi ti offriamo il nutrimento, o Matarishva, a Te che sei nostro Padre!».[11]
In questo Secondo Quesito l’Upanishad identifica inizialmente il prana all’aspetto denso della coscienza atmica che permea la forma in quanto energia vitale suddivisa nelle cinque funzioni (prana, apana, vyana, samana e udana), di cui si dirà meglio in seguito, indi estende l’identificazione alle funzioni organiche e ai deva (le loro controparti sottili) in ambito individuale e universale e, infine, lo identifica con il sommo Signore. Dunque il prana è l’Atman stesso che si manifesta, pervadendo progressivamente le diverse dimensioni o livelli della totalità.[12]
Nel “Terzo Quesito”, Kusalya Ashvalayana chiede: «O beato, donde trae origine il prana? In che modo entra nel corpo? E quindi, dopo essersi suddiviso, in che modo vi dimora? Attraverso che cosa ne fugge? In che modo sostiene l’esterno e in che modo il veicolo individuato?».[13] Il Maestro nota innanzitutto che l’interrogativo sull’origine del prana è di natura trascendente, poiché questo scaturisce dal Sé, dal supremo Purusha. Proprio come, sul piano sensibile, da un corpo umano si produce la sua ombra, così sul Brahman o Purusha è “disteso” questo principio detto prana, associato al jiva, l’anima individuata, riflesso dell’Atman. Esso penetra nel corpo attraverso l’attività mentale. Riguardo al “modo”, il prana principale presiede all’attività di tutti gli altri organi (della vista, dell’udito, ecc.), che sono sue modificazioni, come un «[...] sovrano si avvale dei suoi ministri [...]».[14]
A questo punto l’Upanishad dà indicazioni dettagliate sulla suddivisione del prana: apana, che controlla il flusso inferiore ed è collocato negli orifizi di escrezione e generazione; prana, che controlla il flusso superiore ed è collocato nel capo; samana, che controlla l’assimilazione e la distribuzione del nutrimento solido e liquido, riversandolo come un’offerta sacrificale nel fuoco corporeo, situato nello stomaco, da cui si levano “sette fiamme” (saptarcishah), corrispondenti ai sette organi di percezione collocati nel capo; vyana, che dalla regione del cuore si dirama attraverso centouno canali nervosi (nadi) primari, da cui se ne diramano altri settanduemila, pervadendo la totalità della struttuta sottile; udana, è il soffio vitale che scorre lungo la nadi verticale detta sushumna, esso conduce a un mondo divino se, al momento del trapasso, si dirige verso l’alto, a uno infernale, se scorre verso il basso, e al mondo umano quando il flusso ascendente (meriti) e quello discendente (demeriti) si mescolano. Il prana (nell’occhio, ecc.) corrisponde al sole, l’apana alla terra (prithivi), il samana allo spazio, il vyana all’aria, l’ udana alla luce.
Al momento della morte, quando la luce interna del soffio vitale sta per estinguersi, gli organi, e cioè i vari prana, vengono riassorbiti nella mente. È importante notare come nella Tradizione sapienziale l’essere individuato venga concepito come un altare sacrificale e le sue funzioni quali atti rituali. Da ciò si può desumere quanto nociva - da tutti i punti di vista, ante omnia da quello soteriologico - sia la pratica dell’espianto e del trapianto di organi vitali, la quale va ad interferire con il processo di riassorbimento gerarchico dei vari prana. Soltanto un grande Yogin, in samadhi, potrebbe reggere all’emozione e al dolore violenti derivanti dall’espianto del cuore o di un altro organo vitale.
«[Al tempo della morte] qualunque sia il suo pensiero, con quello va ad assorbirsi nel prana. Il prana associato con la luce, unendosi al sé [individuato, lo] conduce al mondo che egli ha concepito».[15]
Chi conosce «[...] l’origine, la penetrazione, la sede e il quintuplice potere del prana [...]»[16] ottiene una discendenza che non si interrompe e l’immortalità.
Nel “Quarto Quesito”, Sauryayani Gargya chiede al rishi Pippalada quali siano nell’essere umano gli organi (karanani) che si addormetano, cessando le proprie attività, quali rimangano desti, persistendo nelle loro attività, e quale sia tra questi due gruppi il deva che percepisce i sogni.[17] E ancora: «A quale compete, invece, questa felicità [del sonno profondo]? In quale [deva], invero, vanno a riassorbirsi [gli organi durante il sonno profondo]?».[18] Qui Shankara, nel suo Commento, ipotizza, a guisa di obiezione, il dubbio circa la dichiarazione che gli organi «[...] vadano ad unificarsi da qualche parte».[19] Egli chiarisce che «[...] dato che gli enti compositi dipendono sempre da un altro ente [non-composito], appare logico che essi vadano ad unificarsi in un [altro] ente durante il sonno»[20] e fa notare come l’ultimo interrogativo rimandi a Quello nel quale nel sonno profondo come nella dissoluzione universale (pralaya) si riassorbono i vari corpi: denso, sottile e causale.
Pippalada risponde che, allo stesso modo in cui i raggi si riassorbono e riunificano nel sole quando questo tramonta e di nuovo se ne diffondono quando sorge, così, nello stato di sonno con sogni, i sensi e i loro oggetti si riunificano nel deva che è la mente. Sulla “cittadella” del corpo addormentato vigilano i fuochi dei cinque soffi vitali del prana, proprio come simboleggiato nel rito dell’Agnihotra, il sacrificio rituale quotidiano che si celebra all’alba e dopo il tramonto. Il samana è il celebrante (hotri), poiché reca equamente le due oblazioni dell’ispirazione e dell’espirazione; la mente, che durante il sonno con sogni rimane sveglia, è il sacrificante (yajamanah); e l’udana, il soffio vitale ascendente, è il frutto del sacrificio poiché conduce la mente al Brahman, riassorbendola nello stato di sonno profondo senza sogni. Sebbene il passaggio attraverso i tre stati avvenga ugualmente per tutti gli uomini, soltanto il conoscitore lo vive consapevolmente; se ne deduce che soltanto l’uomo illuminato beneficia pienamente del frutto del sacrificio.[21]
Nello stato di sonno con sogni la mente non è influenzata dall’esperienza sensoriale, ma, pervasa da impressioni e desideri, percepisce e diventa essa stessa i propri contenuti interni. La libertà del conoscitore del campo (kshetrajna), essendo pura autocoscienza, non viene tuttavia limitata dall’attività mentale. Qui Shankara ipotizza un’ulteriore serie di obiezioni circa la strumentalità della mente, l’autoluminosità del jivatma, o la possibilità che i vari rami dei Veda conducano a conclusioni diverse, alle quali risponde esaurientemente.
Quando nel sonno la mente viene saturata dallo splendore del fluido vitale essa si ferma e permane «[...] immobile in forma di consapevolezza indistinta».[22] In questo stato di sonno profondo la mente non percepisce più i sogni, «[...] la porta della visione essendo ostruita dallo splendore»,[23] ed emerge la pura consapevolezza imperturbata e onnipervadente. La vera natura del Sé che, durante lo stato di veglia e di sonno con sogni, «[...] appare alterata a causa delle sovrapposizioni limitanti, si svela non-duale, unica, benefica e pacificata».[24] Come «[...] gli uccelli si posano sull’albero che è il loro ricovero»,[25] così tutto il manifesto riposa nel Sé. «Invero questo è colui che vede, colui che tocca, colui che ascolta, colui che annusa, colui che assapora, colui che pensa, colui che conosce, colui che agisce, il sé che è conoscenza, il purusha: esso riposa nel supremo Sé, l’Immutabile».[26] Colui che conosce Quello che è senza ombra, senza corpo, senza colore, senza cambiamento, realizza l’Assoluto e diviene onnisciente.
Nel “Quinto Quesito”, Shaibya Satyakama chiede: «O beato, colui, tra gli uomini, il quale meditasse intensamente sulla sillaba Om fino alla dipartita, quale mondo, invero, conseguirebbe?».[27] Nel suo Commento Shankara nota che l’espressione «colui tra gli uomini» sta ad indicare un uomo non comune, dotato delle capacità di ritirare la mente dagli oggetti sensibili e di meditare intensamente sulla sillaba Om. Egli così definisce la “meditazione intensa” (abhidhyana): «[...] una consapevole identificazione (atmapratyaya) [con l’oggetto di meditazione] costante e ininterrotta e non turbata da contenuti estranei o di altro ordine [...]».[28]
L’Upanishad sottolinea come la sillaba Om sia lo stesso Brahman, conosciuto come supremo (param brahman) e non-supremo (aparam). Sebbene il primo non possa essere espresso con parole, non possa essere compreso con la mente e trascenda tutte le distinzioni, attributi, ecc., al saggio che mediti sulla sillaba Om si rende propizio e concede conoscenza.
La sillaba Om (omkaram) è composta da tre misure (matra): A, U, M. La lettera A corrisponde al piano denso della manifestazione, allo stato di esistenza Virat (nell’ordine universale) e vaishvanara (nell’ordine individuale), allo stato di veglia (jagrat). La lettera U corrisponde al piano sottile, allo stato di esistenza Hiranyagarbha (nell’ordine universale) e taijasa (nell’ordine individuale), allo stato di sogno (svapna). La lettera M corrisponde al piano causale, allo stato di esistenza Ishvara (nell’ordine universale) e prajna (in quello individuale), al sonno profondo senza sogni (sushupti). Queste corrispondenze, che potrebbero essere estese ai vari corpi o guaine (kosha) che avvolgono il Sé (l’Atman), costituiscono l’ossatura del linguaggio Vedanta. Se il ricercatore medita sulla prima misura, i mantra del Rig Veda lo condurranno presto, dopo la morte, al mondo degli uomini in condizioni spiritualmente favorevoli. Se egli medita sulla seconda, i mantra dello Yajur Veda lo innalzeranno al mondo della Luna (Candraloka), dal quale, godutone lo splendore, tornerà al mondo umano. Se egli medita sulla terza, necessariamente costituita di tutte e tre le misure, A+U+M, i mantra del Sama Veda lo innalzeranno, affrancato dall’errore, al mondo di Brahma (Brahmaloka), integrandolo «[...] nel sole quale pura luce».[29]
Il sutra successivo precisa che «Le tre misure [prese singolarmente] sono circondate dalla morte».[30] Il manifesto, infatti, sia sul piano denso, che sottile e causale, è di natura transitoria. Ma se non le si applica differentemente, bensì come se fossero un tutt’uno «[...] il Conoscitore non è più turbato [da nulla]».[31] Chiosa Shankara: «Poiché, invero, tale conoscitore è divenuto il Sé di tutto e identico alla sillaba Om, donde mai potrebbe venire deviato? E verso dove?».[32]
In conclusione, per mezzo della sillaba Om il saggio consegue il triplice mondo, e cioè il Brahman non-supremo o saguna, con attributi, ma soltanto per mezzo dell’Om silenzioso, privo di misure (amatra), egli realizza il Brahman supremo o nirguna, l’Immutabile, la Realtà assoluta, pacificata, immortale, priva di paura.
Nel “Sesto Quesito”, l’ultimo, Sukesha Bharadvaja dichiara di aver risposto ad un principe di Kosala che lo interrogava sul Purusha dalle sedici parti: «[...] io non lo conosco. Se conoscessi questo [Purusha], perché mai non dovrei esportelo? Infatti, chi afferma il falso viene completamente disseccato sin dalle radici [...]».[33] E, rivolgendosi a Pippalada, conclude il primo sutra con la seguente domanda: «[...] dov’è quel Purusha.[34]
Per meglio far comprendere la domanda di Bharadvaja, Shankara, nel Commento, riassume quanto precedentemente sviluppato dall’Upanishad: «[...] l’intero universo, consistente in [una ininterrotta catena di] cause ed effetti, insieme con il principio di coscienza che è il sé [individuato], durante il sonno profondo riposa nel supremo Immutabile».[35] Se ne deduce che anche il mondo, al momento della dissoluzione cosmica (pralaya), viene riassorbito nell’Immutabile. Tutto trae origine da Quello e quindi, poiché si deve ammettere che un effetto non può che essere assorbito nella sua causa, ad esso ritorna. Significativamente Shankara nota che, secondo tutte le Upanishad, «[...] il Bene supremo discende solamente dalla piena realizzazione di Quello che è la radice dell’universo [...]».[36]
Pippalada alla domanda «[...] dov’è quel Purusha risponde: «Qui stesso, all’interno del corpo, mio caro [...]».[37] E cioè, il Purusha nel quale si manifestano, si originano le sedici parti (kala) si situa «[...] nello spazio all’interno del loto del cuore [...]».[38] Il Purusha è di per sé privo di parti, ma a causa dell’ignoranza principiale (avidya) appare composito. Per mezzo della conoscenza (jnana) le parti, che in realtà sono sovrapposizioni limitanti (upadhi), vengono rimosse e si realizza il Purusha in quanto Assoluto Non-duale.
Shankara spiega come «[...] l’origine, l’esistenza e il riassorbimento delle parti, che vengono sovrapposti [al Purusha], sono contenuti nella sfera dell’ignoranza; questo avviene perché le parti, al tempo della loro creazione, conservazione e dissoluzione, sono sempre percepite esistere non separatamente dalla coscienza».[39] E di seguito prende in considerazione i punti, confutandoli, in cui le dottrine dei buddhisti idealisti (vijnanavadin), dei buddhisti nichilisti (shunyavadin), dei sofisti (tarkika), dei materialisti (della scuola Lokayata), del darshana dualistico Samkhya, codificato da Kapila, divergono dall’interpretazione non-dualista (monismo assoluto) dell’insegnamento upanishadico.
Esaminare dettagliatamente le varie obiezioni poste e le confutazioni del grande acarya, codificatore dell’Advaita-vedanta, sarebbe assai interessante, ma richiederebbe uno studio a sé. Mi limiterò ad un esempio: i nichilisti affermano l’inesistenza della conoscenza laddove è assente l’oggetto e quindi fanno derivare da questo la conoscenza. Shankara replica che anche la non-esistenza che essi affermano come eterna e conoscibile, dato che in un qualche modo la definiscono, è oggetto di conoscenza, «[...] poiché la non-esistenza di tale [conoscenza] è essenzialmente [il contenuto di] una conoscenza [venendo conosciuta come oggetto]».[40] Ne consegue che l’asserzione della non-esistenza della conoscenza è affatto priva di significato.[41]
E a chi interpreta alla lettera la collocazione del Purusha all’interno del corpo, «[...] come un frutto di jujuba posto in una ciotola»,[42] Shankara risponde: «[...] una dichiarazione scritturale non potrà mai rovesciare qualsivoglia concezione [già acquisita dalle Scritture e corroborata dal senso comune]. [...] Perciò l’espressione “all’interno del corpo” (antahsharire) deve intendersi nel medesimo senso in cui si è stabilito che “lo spazio esiste all’interno dell’Uovo Cosmico”, in quanto [tali espressioni] si conformano alla comune esperienza».[43] In realtà il Purusha, che è causa dello spazio, come potrebbe essere delimitato dal corpo?
A questo punto la Prashna Upanishad enuncia il processo di emanazione-creazione delle “sedici parti” - il prana, la fede, lo spazio, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra, gli organi, la mente, il cibo, il vigore, l’ascesi, i mantra, i riti, i mondi e il nome di ogni essere - e di come esso sia preceduto da un atto di consapevolezza (cetana). Le “sedici parti” emanano dal Purusha e in esso si riassorbono alla rimozione della distinzione di nome e forma (nama-rupa).
«Come questi fiumi, i quali scorrono [verso il mare] avendo il mare come ultima dimora, allorché sono sfociati nel mare ivi cessano di essere venendo meno i loro nomi e forme, per cui vengono chiamati solo oceano, allo stesso modo queste sedici parti di questo Testimone onnipresente, che hanno il Purusha come ultima dimora, allorché vengono riassorbite nel Purusha ivi cessano di essere venendo meno i loro nomi e forme, per cui vengono chiamate solo Purusha. Colui [che così conosce] diviene privo di parti e immortale».[44]
L’Upanishad termina con la raccomandazione di realizzare Quello, «[...] affinché la morte non possa più affliggervi».[45] Pippalada dichiara di aver esposto tutto quello che conosce sul Brahman supremo, non trasceso da nulla.
I sei interroganti-discepoli gli rendono omaggio, prostrandosi ai suoi piedi ed offrendogli ghirlande: «Per noi sei tu, in verità, il nostro Padre, perché ci hai traghettato dall’ignoranza all’altra sponda. Sia reso omaggio ai grandi Saggi!».[46] Il padre e la madre che hanno generato il corpo vanno indubbiamente venerati, ma infinitamente di più va venerato il Padre che «[...] ci ha traghettato, con la zattera della conoscenza, [...] dallo sconfinato, grande mare dell’ignoranza o della falsa conoscenza, infestato dalle voraci belve della nascita, dell’invecchiamento e della morte, della malattia e di ogni sofferenza, all’altra sponda denominata liberazione, dalla quale non vi è ritorno [...]».[47] Il Padre corrisponde qui al Guru che etimologicamente rimanda al concetto di disperdere (ru) l’oscurità (gu).
Desidero concludere con una riflessione del Gruppo Kevala, inclusa nell’Introduzione al Pancikaraªa (La Quintuplicazione) di Shri Shankaracarya, che chiarisce l’atteggiamento con il quale si dovrebbe affrontare lo studio della presente Upanishad e, più in generale, di qualsiasi testo sacro: «Come tutti i testi appartenenti alla Tradizione, anche questo è rivolto all’intuizione coscienziale pura (buddhi) e non a quella ragione discorsiva (manas) che può costituire tutt’al più un temporaneo supporto per la prima, in attesa dell’instaurarsi di una piena e diretta consapevolezza della Realtà. Ciò esige un accostamento di natura esclusivamente coscienziale dettato cioè da una vera e propria istanza realizzativa, quindi dall’autentica aspirazione verso la totale emancipazione dai vincoli dell’esistenza relativo-samsarica».[48]  

Giuseppe Gorlani


[1] Glossario Sanscrito, Ediz. Asram Vidya, Roma ’88.
[2] Prasna Upanisad, I.2.
[3] «Essendo [Prajapati] l’Unità principiale, al di fuori della quale non vi è nulla di manifestato, la sua “ascesi” (tapas) consiste nella meditazione, sia perché non vi è un dualismo soggetto-oggetto su cui impostare il compimento della sadhana o di qualsiasi altro rituale, sia perché la stessa manifestazione è un’immensa proiezione mentale nella coscienza universale», nota n. 4, p. 48.
[4] Introduzione, p. 22.
[5] Sankara, Commento, p. 43.
[6] PrasnUp, I.11.
[7] PrasnUp, I.13.
[8] PrasnUp, I.15.
[9] Sankara, Commento, p. 53.
[10] Idem, p. 56.
[11] PrasnUp, II.11.
[12] Si veda in proposito la nota n. 2, p. 61.
[13] PrasnUp, III.1.
[14] PrasnUp, III.4.
[15] PrasnUp, III.10.
[16] PrasnUp, III.12.
[17] «Il senso [della domanda] è questo: tale [attività] è esplicata da un deva-principio identificato con l’effetto [cioè il corpo], oppure da uno identificato con lo strumento sensoriale [o con la mente]? », dal Commento di Sankara, p. 74.
[18] PrasnUp, IV.1.
[19] Sankara, Commento, p. 74.
[20] Idem, p. 75.
[21] Idem, cfr. p. 78.
[22] Idem, p. 84.
[23] Idem, p. 84.
[24] Idem, p. 84.
[25] PrasnUp, IV.7.
[26] PrasnUp, IV.9.
[27] PrasnUp, V.1.
[28] Sankara, p. 99.
[29] PrasnUp, V.5.
[30] PrasnUp, V.6.
[31] PrasnUp, V.6.
[32] Sankara, p. 105.
[33] PrasnUp, VI.1. Sankara commenta: «[...] chi afferma di sé il falso, cioè qualcosa di diverso da come è o in maniera differente da come si comporta [...] viene arso insieme con quella che è la sua origine, quindi privato di questo mondo e dell’altro; in altre parole viene distrutto», p. 116.
[34] PrasnUp, VI.1.
[35] Sankara, p. 115.
[36] Idem, p. 115.
[37] PrasnUp VI.2.
[38] Sankara, p. 117.
[39] Idem, p. 117.
[40] Idem, p. 120.
[41] È sulla base di simili confutazioni che Sri Sankaracarya estromise - “con un abbraccio fraterno”, secondo un’espressione di Sarvepalli Radhakrishnan - l’eterodossia buddhista dall’India, dimostrando che dottrine come quella dell’anatman (del non sé) sono totalmente prive di fondamento. Chi, infatti, afferma che né il jiva (l’io soggettivo), né l’Atman, l’Io principiale, il Sé, identico al Brahman, esistono? Se il soggetto che afferma è nulla, che valore possono avere le sue parole? E in ogni caso, chi è?
[42] Idem, p. 123.
[43] Idem, p. 124.
[44] PrasnUp, VI.5.
[45] PrasnUp, VI.6.
[46] PrasnUp, VI.8.
[47] Sankara, p. 138.
[48] In Opere Minori, volume primo, Ediz. Asram Vidya, Roma, 1990.