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giovedì 12 gennaio 2012

Dell'orfica musa di Comi

Girolamo Comi, Spirito d’armonia, La Finestra, Trento 1999, s.i.p.


Tocca riposte corde, questo Spirito d’armonia, volume che raccoglie,  come si usa dire in questi casi, il «meglio» della produzione lirica di Girolamo Comi. E le tocca perché Comi — nato a Casamassella (in provincia di Lecce) nel lontano 1890 e morto a Lucugnano (sempre in Puglia), nell’aprile del 1968 — ne esce definitivamente confermato nella sua immagine di poeta dai sapori «orfici» e «lunari», troppo aristocratico per incontrare il gusto di palati inconfessabilmente grossolani. Quanto basta per farcene amare, di un amore segreto e geloso, le spericolate «acrobazie» della parola, quella sorta di «funambolismo» sperimentale che fa della poesia comiana una «prova di forza» linguistico-metafisica: «Il verbo di cui sono schiavo/s’accoppia carnale all’oggetto/ che geme — combusto — nel cavo/del mio più maturo concetto».
Che l’opera di Comi, sotto il profilo tanto della forma quanto del contenuto, debba considerarsi ostica, è cosa nota, risaputa. Pure, la fatica — oggettiva — che si compie nell’avvicinarvisi, è destinata a venire ben presto ripagata ad usura. I versi di Comi hanno, infatti, un non so che di assoluto e di primigenio, come d’altronde eterni e primigeni sono i moti dell’anima che essi lasciano intravedere in filigrana. Li si direbbe, piuttosto, frutto di faticosi esercizi di chiaroveggenza spirituale, tanto l’Autore si abbandona a un sentimento cosmico e misteriosofico della Natura. Un «cespo» di rose profumate, un improvviso «ardere di corolle», un «muro felice», lo «scoccare» dell’aurora: basta poco, un nonnulla, all’aedo, già ebbro di sé e del mondo che lo circonda, per tuffarsi «nel gorgo goloso di tutto», nel «peso radioso... e tremante/di un cosmo che non s’oscura/anche se l’anima è sazia/e sterile la sua avventura».
Capita molto raramente, quasi mai, ragion per cui bisognerà farne tesoro, di imbattersi in un libro come questo di Comi, le cui pagine sarebbero degne di figurare nelle migliori antologie della letteratura italiana contemporanea, sempre che queste si decidano a prenderne in giusta considerazione la figura, finora troppo spesso (e colpevolmente) trascurata. In ogni caso, perché ciò avvenga, occorrerà aspettare ancora un certo numero di lune, se non altro per il semplice fatto che, oggi come oggi, «il lavorio critico intorno all’opera di Comi è così scarso e acerbo da non permetterne una visione organica e completa» (così Donato Valli, in Anarchia e misticismo nella poesia italiana del primo novecento).
Da questo punto di vista, ha dunque fatto benissimo la casa editrice «La Finestra» (piazza Grazioli 12, 38015 Lavis)  a riproporre, sia pure in poche copie numerate, questo Spirito d’armonia, la cui prima edizione, curata dallo stesso Comi per i tipi de «L’Albero» e resasi ormai irreperibile, rimontava al 1954. Rispetto alla versione originale, questa nuova ristampa si vede arricchita dal contributo critico recato da un saggio introduttivo a cura di Marco Albertazzi, nel quale ben si lumeggia l’itinerario mistico e intellettuale di Girolamo Comi, il cui nome viene così sottratto a un troppo lungo — e francamente ingiusto —periodo di oblio.
Il curatore non si nasconde e non ci nasconde che «la lettura delle poesie di Comi è difficile. Si è colti spesso da un senso di pesantezza (...), principale motivo del ruolo marginale che la sua opera ha esercitato e continua ad esercitare». Eppure, sarebbe un errore e insieme un peccato, lasciarsene intimorire, e  indietreggiare di fronte a questa silloge di versi, che sola permette di cogliere appieno quella «personificazione lirica dell’Uomo nell’Essere» che sembra essere, in fondo, la cifra più vera e stranita  dell’ultimo Comi. Quello, per intenderci, che, a proposito del mistero della morte, scriveva: «Ossa aride, carne sgretolata/fibre dissolte, voi sapete il sale/ — poi che l’ora terrestre è consumata — /del corpo umano ch’è spirituale». E ancora: «Come voi aspetto d’essere sepolto/per conquistare la resurrezione/della carne dell’anima del volto». 
Le scarse notizie biografiche disponibili su Comi, riferiscono di una serie di eventi «traumatici» che ne turbarono l’adolescenza, tra i quali la prematura scomparsa del padre (nel 1908) e il lungo soggiorno (tra il 1908 e il 1912) presso un collegio di Losanna. Esperienze che il giovane Comi, nel frattempo trasferitosi a Parigi (dove, tra parentesi, conosce Claudel e Valéry), riversa nella sua prima fatica, Il lampadario. Sopraggiunta la guerra, il 22 maggio del 1915 viene chiamato alle armi, salvo poi ottenere, qualche mese più tardi,  il beneficio del congedo per problemi di nevrastenia. Dopo il matrimonio (1918), lo ritroviamo a Roma, dove, in compagnia di Arturo Onofri, dal quale mutuerà non poche suggestioni antroposofiche, e di Nicola Moscardelli, fonda la casa editrice «Al Tempio della Fortuna», dai torchi della quali usciranno poche, ma raffinate plaquettes, di cui non c’è bibliofilo che non vada a caccia. Risale pressappoco a questo stesso periodo un altro, fondamentale incontro: quello con Julius Evola, filosofo esoterico, già dadaista, che lo introduce nel «Gruppo di Ur» e nell’omonima rivista, dove il Nostro si firmerà «Gic», pseudonimo a dir poco trasparente (il lettore interessato ad approfondire l’argomento, potrà consultare con profitto l’epistolario Evola-Comi, pubblicato nei quaderni della «Fondazione J. Evola» da Gianfranco de Turris).
Una faticosa «cerca del Graal», quella che impegna il Comi in questi anni, e che culminerà, dopo tanto vagare, nella piena e matura decisione di convertirsi al cattolicesimo (vedasi, a questo riguardo, il suo Aristocrazia del cattolicesimo, Modena 1937).

La parabola umana di Comi sfuma nel più triste degli epiloghi. Gli ultimi scampoli della sua vita, Comi li trascorre nella sua casa di Lucugnano (Lecce), tra solitudine e povertà, sopraffatto dalle più varie avversità morali e materiali.  La sua voce si spegne il 3 di aprile del 1968, non senza averci prima regalato Fra lacrime e preghiere, l’estremo saluto di un uomo in procinto di catturare   quello che egli stesso aveva definito, e non a torto, «il ritmo inesauribile che urge».

Raimondo di Pennaforte