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venerdì 13 gennaio 2012

Periplo del pensiero indiano: conoscere per essere

Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza 2005.


Tra i non molti libri che, di tanto in tanto, pro memoria, ci piace strappare alle grinfie impietose dello scaffale, spicca la Storia della filosofia indiana di Giuseppe Tucci (Macerata 1894-S. Polo de’ Cavalieri 1984). Fulgido esempio, l’opera suddetta, di come si possa affrontare un argomento di per sé ostico e smisurato quale è, per l’appunto, il plurimillenario sviluppo della riflessione indiana, vista nel suo complicato intrecciarsi di correnti teoretiche e di dottrine soteriologiche, con un «taglio» al tempo stesso specialistico e divulgativo, capace di venire incontro, con rara e leggiadra intelligenza delle cose, tanto alle sete di sapere dello studioso più pignolo quanto alle legittime curiosità del cosiddetto — ma esiste davvero? — lettore «medio». Difficile arte, certo, quella della «divulgazione colta», del «dilettare insegnando», nella quale, tuttavia, il nostro Tucci, grande orientalista e viaggiatore di stampo «poliano», ma anche scrittore dalla penna felice tutto da scoprire, seppe eccellere. Basterà scorrere, per rendersene conto in prima persona, le oltre seicento fitte pagine di questo sobrio e tipograficamente impeccabile volume laterziano. Di capitolo in capitolo, vi sembrerà quasi, le linee fondamentali del filosofare indiano, le sue tendenze più antiche e sopite, la forma mentis tradizionale che lo sottende, apparentemente così lontana da certo razionalismo occidentale di marca cartesiana, di vederle prendere corpo e animarsi, sotto i vostri occhi. Un pensiero, quello di cui siamo tutti inconsapevolmente debitori all’India «classica», dominato in ultima analisi da un prepotente «anelito» spirituale, frutto — come Tucci non si stanca peraltro di  ripetere — più di folgorazioni metafisiche, più di intense «esperienze» ascetiche che non di gelide planimetrie della mente. In una parola, un pensiero «vivente» che da sempre — come osserva ancora l’Autore — ha cercato con tutte le sue forze di appurare «che cosa sia l’io»; di «chiarire il rapporto fra quell’io e il supremo principio delle cose»; di «accertare se i due non siano la medesima cosa»; di «preparare il terreno perché l’uomo, conoscendo, si salvi». 


Conoscere per essere: questo, in estrema sintesi, il punto di partenza e insieme di arrivo delle varie scuole speculative che il continente indiano ha visto nei secoli fiorire, avvicendarsi e sovrapporsi, a cominciare dai Buddhismo, dallo Yoga, e dallo Scivaismo: «vie», «discipline», «sette», «orientamenti» diversi, che finiscono comunque, a posteriori, per rappresentare altrettante «tappe» di un faticoso e a volte sovrumano processo di affrancamento interiore, culminante nella purezza immota e impareggiabile della «coscienza cosmica».
Angelo Iacovella