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martedì 24 gennaio 2012

Il ritorno di Federico II di Prussia


Il 24 gennaio 1713 nasceva a Berlino Federico II, cui alcuni storici conferirono l’appellativo di “grande” (fu l’ultimo monarca cui si diede questo riconoscimento). E grande lo fu per davvero: la Prussia era da pochi anni diventata un regno e benché Federico sembrava per tanti aspetti essere l’inverso del padre, ne seguì la politica militarista, rafforzando, con il sostegno dell’aristocrazia terriera, un esercito straordinariamente moderno. Ma non disdegnò di appoggiarsi agli emigranti francesi, discendenti degli ugonotti scacciati dalla Francia, per costruire una efficiente industria manifatturiera a Berlino e che con lui divenne ciò che è: la capitale della Germania, anche se il nostro Federico, seguendo l’esempio francese, si costruì una sua residenza a pochi chilometri, a Potsdam, chiamandola “Sans Souci”. La sua simpatia culturale per la Francia (senza che ciò gli impedisse di scatenare la Guerra dei Sette Anni contro Austria, Francia e Russia) non conosceva limiti; fu una personalità assai complessa: apprezzato musicista, compose sinfonie, ammirate dallo stesso Bach, e pregevoli opere per flauto, di cui era un provetto maestro. Partecipò (con sfortuna, ahimé) al dibattito letterario con un pamphlet in francese contro la letteratura tedesca, che egli, il Gran Re, considerava barbara e aspra, convinzione rafforzatagli dai drammi di uno scapigliato giovanotto, un certo Goethe…
Ma la passione dominante era la filosofia. Nel 1739 non si peritò, proprio lui (che qualche anno dopo invase la Sassonia neutrale pur di vincere la guerra) di scrivere l’ Antimachiavel contro la filosofia politica per cui il fine giustifica i mezzi. L’opera piacque a Voltaire che ne curò la pubblicazione. Con Voltaire e altri philosophes il re intrattenne un’intensa corrispondenza, invitando il grande filosofo. L’utopia illuminista sembrava realizzarsi a Sans-Souci, ma il sodalizio ebbe ben presto termine e del resto gli eventi bellici occuparono sempre più l’attenzione del re che intraprese una specie di prova generale di guerra mondiale per difendere la Slesia, che aveva elegantemente “rubato” all’Austria della sua grande avversaria, Maria Teresa. Per sette anni mise la Germania a ferro e fuoco. La guerra dilacerava i tedeschi in due partiti ostili. Goethe, nell’autobiografia, racconta che la sua famiglia era spaccata: il nonno materno, il dignitoso borgomastro di Francoforte, era un convinto antifedericiano, mentre il padre, giurista e consigliere imperiale, era favorevole a Federico e la lite dovette essere furiosa tant’è che papà Goethe si scagliò con un coltello contro il suocero. Sempre Goethe racconta un divertente episodio molto meridionale: a Caltanisetta, nel 1787, era coi notabili del paese che s’inneggiavano alla grandezza di Federico II. Il poeta ascoltava in silenzio e a disagio e non se la sentì di addolorare i presenti con la ferale notizia che Federico II era morto il 17 agosto 1786. Poi si rese conto che i suoi ospiti si riferivano a Federico II di Svevia.
E’ che per i tedeschi di Federico c’era solo lui, ieri e forse ancora oggi e ancora oggi il giudizio degli storici è aperto. Lo si considerò precursore dell’imperialismo prussiano e perfino del nazismo, ma allo stesso tempo si ammiravano il suo senso della giustizia e la sua esemplare riforma della magistratura e dei codici. «Esiste un giudice a Berlino», la famosa frase del mugnaio di Potsdam lanciata contro il re è la più eloquente prova di quanto giusta fosse la giustizia federiciana. E inoltre era famosa la sua tolleranza in fatto religioso: mentre il papa scioglieva la Compagnia del Gesù e i patres venivano banditi e i loro cospicui beni confiscati negli stati cattolici, Federico, l’illuminista massone, li accoglieva volentieri nel suo regno, dove era lecito credere a chi si voleva, l’importante era obbedire. Per i tempi era un progresso (rapidamente annullato dal suo bigotto successore). Era solo propaganda? Lessing, il massimo rappresentante dell’illuminismo tedesco, nel dramma Minna von Barnhelm dà una versione assai critica delle sbrigative procedure dell’amministrazione del re.
E’ che in Federico II s’incarnano le tante Germania che amiamo, odiamo, che stimiamo e temiamo: la cultura, la filosofia, la musica e il militarismo, lo spietato senso dell’ordine e del dovere, un implacabile superomismo come quando per sette ore restò a cavallo sotto una pioggia torrenziale per dare un esempio ai soldati, o quando gridò ai suoi granatieri in battaglia di lanciarsi all’attacco, ché la vita non è eterna. Ciò che sempre incontriamo in Federico è una spigolosità inesorabile che alcuni credono di ritrovare oggi in certi politici tedeschi, come nella “ortodossia finanziaria” (secondo Sarkozy) di Angela Merkel, non a caso la più settentrionale e “prussiana” dei cancellieri degli ultimi decenni. Ci resta la Germania della musica e del pensiero. Non è poco ancora oggi.     
Marino Freschi